CINEFORUM / 552

La dissoluzione finale

Durante la stesura della sceneggiatura di Eyes Wide Shut (id., 1999) Stanley Kubrick non faceva altro che punzecchiare lo sceneggiatore e scrittore Frederic Raphael il quale giustamente ha poi voluto aprirsi letterariamente: rivelare, far sapere ciò che per prassi sarebbe dovuto restare segreto, dietro le quinte, pura aneddotica. Ha deciso di rievocare l’esperienza scegliendo lo stile e l’impianto della sceneggiatura cinematografica. E le pagine più belle di questa sorta di script, un po’ diario, un po’ saggio, un po’ tutto e il contrario di tutto, ci restituiscono il duetto in cui Kubrick lo provoca sul tema della Shoah, rimasta a suo avviso senza riscontri cinematografici (1). Vedendo Il figlio di Saul di László Nemes, ci è tornato in mente proprio questo stralcio di lista dei dialoghi tra i due, come in un film. Con Kubrick che inizia chiedendo: «E allora l’Olocausto? Che cosa ne pensi di quello?». E Raphael: «Cosa ne penso? Penso che ora forse non abbiamo il tempo di…». Kubrick: «Come soggetto per un film, è fattibile?». Raphael: «Ne hanno già fatti di film sull’Olocausto». Kubrick: «Ah sì? Non lo sapevo». Raphael: «Hai mai viso quel film di Munk incompiuto, La passeggera?» […]. Kubrick: «Ok, e quali altri hanno fatto?». Raphael: «Notti e nebbia. Che era una specie di documentario». Kubrick non si dà per vinto: «E poi?». Raphael, annotando tra parentesi come in un copione che si rispetti «Sapendo benissimo che è a questo che [Kubrick] vuole farlo arrivare», non esita a tirar fuori il titolo del film innominabile: «Beh, c’è Schindler’s List». Kubrick, evidentemente contento di essere riuscito a farglielo pronunciare: «E ti sembra un film sull’Olocausto?». Raphael, ormai messo in mezzo: «No? E su cos’è?». Kubrick: «È un film sul successo. L’Olocausto riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate. Schindler’s List parla di seicento persone che non vengono ammazzate. Altri?». Ecco, la risposta a questa provocazione, più che una domanda, potrebbe essere oggi Il figlio di Saul, senza dimenticare nel frattempo il contributo attivo sull’argomento fornito da Claude Lanzmann (Shoah [id., 1985], Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures [2001], L’ultimo degli ingiusti [Le dernier des injustes, 2013]), Roman Polanski (Il pianista [The Pianist, 2002]) e Paul Schrader (Adam Resurrected [id., 2008]). Quello di László Nemes è però un esemplare più unico che raro di film sull’Olocausto, o per meglio dire sulla Shoah, nella molto selettiva e severa accezione kubrickiana. Per la semplice e inconfutabile ragione che «riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate». A quindici anni dalla memorabile conversazione appena trascritta, sarebbe quindi interessante provare ad aggiornarne la sostanza partendo da Il figlio di Saul, autentico punto di non ritorno del rapporto tra cinema e Shoah. Che ci ricorda, semmai ce ne fosse bisogno, come sull’argomento il cinema abbia sempre da sempre avuto un problema grosso, di rappresentazione. Che cosa rappresentare? E soprattutto come rappresentare quel qualcosa di indicibile. Problema spesso insormontabile, nonostante i numerosi film e telefilm che di anno in anno accrescono il numero già oggi cospicuo di esemplari, non tutti indispensabili, di un patrimonio considerevole: un patrimonio di immagini ricreate o recuperate in cerca di una sintesi dell’evento, di una documentazione congruente, di una risposta morale, storica, civile, psichica. Ebbene, come ha spesso sottolineato Jean-Luc Godard, il problema con la Shoah è sempre lì. Sembrerà strano, e lo è maggiormente alla luce dell’impatto rivoluzionario sul piano audiovisivo di Il figlio di Saul, ma più film vediamo e più cresce la sensazione che manchi l’essenziale. Il film d’esordio di Nemes al contrario ci ricorda l’horror vacui rispetto a ciò che è stata la Shoah. O per meglio dire la sensazione di un horror vacui al quadrato, l’horror vacui riferito all’orrore stesso, l’incapacità di restituire per immagini l’inimmaginabile. La posta in gioco è il trionfo assoluto della morte su scala industriale. Non esistono vie di mezzo, come dimostra questo fulmine a ciel sereno, questo film a lungo atteso e ora finalmente divenuto reale, possibile, concreto: l’equivalente straniante ma verosimile e strutturale sul palcoscenico mostruoso della Shoah del celebre “strappo nel cielo di carta” che paralizza l’emblematica marionetta pirandelliana in Il fu Mattia Pascal. Il figlio di Saul è un di film di altro tipo e spessore, rientra nella sguarnita categoria di quelli che più si avvicinano al cuore atroce del problema. Problema – ripetiamo – di senso, di intelligibilità, di espressione. Perché a conti fatti, concordando con la griglia molto restrittiva di Kubrick, il film per eccellenza sulla Shoah dovrebbe essere una specie di documentario industriale che dia conto di come l’operazione dello sterminio abbia funzionato in quegli anni (pur)troppo bene, a pieno regime, con un margine di errore tecnico infinitesimale, molto trascurabile. I sopravvissuti in questa cornice di efficienza lugubre, scientifica, impeccabile, finirebbero nel computo per essere appena un’appendice insignificante dei fatti, un ramo cadetto di una pratica discorsiva molto corposa che trova paradossalmente nei pianificatori e negli esecutori a qualsiasi livello della eufemistica “soluzione finale” la vera prospettiva sostenibile. Parlare, o meglio rappresentare la Shoah, partendo dai vivi, cioè dai “salvati”, per dirla con Primo levi, e non dai morti, ovvero i “sommersi”, diventa ogni volta un modo per sviare, scelta quest’ultima comprensibile, fragile, commovente, ma non sufficiente. Specialmente dentro un meccanismo perfettamente funzionante in cui gli unici titolati a parlare dovrebbero essere, appunto, i carnefici. Possibilmente nemmeno quelli che hanno scelto per convenienza di nascondersi, mentire, minimizzare, bensì gli altri, gli entusiasti. Quelli fin troppo soddisfatti dei risultati, convinti delle proprie azioni, orgogliosi del lavoro svolto. Oppure le vittime, soltanto quelle che però – ed ecco il paradosso configurarsi – non possono testimoniare, poiché nell’incubo storico e concreto della Shoah anche solo aver vissuto un istante di libertà, guadagnato un giorno, un mese, un anno di vita, o addirittura un’intera vita dopo quell’esperienza vuol dire in prima istanza essere stati, per fortuna incalcolabile o per caso incomprensibile, tagliati fuori dalla Shoah. Il figlio di Saul ci pone di fronte a questo ignobile dilemma, che investe la sfera dell’audiovisivo più diogni altro canale comunicativo o mediatico. Cosa/come far vedere e sentire per dar conto di un progetto di morte attuato con così grande solerzia, puntualità, accanimento, in cui la morte è la regole e la vita appena l’improbabile, ironica eccezione? László Nemes compie una scelta davvero impressionante. Mette disperatamente e maniacalmente a fuoco il soggetto che guarda, resiste, si muove, si dà da fare, mentre attorno a lui tutto il resto è evidente, ma sfocato. Il che non comporta affatto che lo spettatore non veda. Anzi, è proprio ciò che resta fuori fuoco, ma pur sempre a portata di sguardo a irretirlo, a sconvolgerlo. Quanto più l’autore non vuole mostrare, tanto più costringe lo spettatore a cercare con gli occhi l’eccesso nel difetto, a superare mentalmente la ridotta nitidezza delle immagini di contorno, che a maggior (s)ragione diventano centrali, incancellabili, nitidissime. Il figlio di Saul è dunque un film che sfida le consuetudini dello spettacolo, rendendo esemplare e centripeta/centrifuga la coscienza del soggetto singolo, l’ungherese protagonista che cerca mentalmente scampo dandosi un compito ossessivo, seppellire un presunto e indimostrato figlio, il filtro di una persistente e interminabile rassegna completa degli orrori. Orrori che si consumano a ciclo continuo davanti, dietro, accanto al “folle”, sedicente genitore di un giovane cadavere, ovunque. Non c’è speranza, né sosta in questo massacro inarrestabile: né speranza che qualcosa accada e modifichi il corso nefasto degli eventi, né speranza di poter distogliere lo sguardo dai modi, dai tempi delle esecuzioni. Nessuno si salva in Il figlio di Saul, né il ragazzo che miracolosamente o per inspiegabile costituzione fisica, sopravvive alle esalazioni mortali della camera a gas, né lo stesso personaggio centrale, cui spetta il terribile e ingrato compito, assecondato dalla macchina da presa, di focalizzare/sfocare l’esistente, così come ai sonderkommando spetta quello di occuparsi dei cadaveri potenziali o effettivi. La figura del membro oramai in preda a un delirio salvifico, paternalista, del sonderkommando rende molto bene il senso della parabola, che non permette tregua o scorciatoie. Né “soluzione” alcuna che non sia iscritta nel devastante bilancio milionario della “soluzione finale”. Non c’è spazio risolutivo credibile e pertanto risarcibile, sia pure per motivi di umana pietà, salvo quello dello stress da lavoro, lavoro che si accumula, lavoro talmente debordante da mandare spesso in tilt la macchina nazista. E come sbanda la macchina del delitto seriale, massificato, così la macchina cinema si aggrappa all’espediente del dirottare a latere le sistematiche atrocità. Ai ritmi di produzione della fabbrica dello sterminio, oltre il principio del cottimo più crudele, corrispondono le prerogative audiovisive della macchina cinema, il rapporto dialettico tra messa a fuoco e sfocatura, ripresa ravvicinata e distanziata, immagine fissa e in movimento, montaggio esterno e interno, inquadratura breve e lunga. A partire dal piano sequenza inaugurale che non è soltanto uno dei macro-segmenti di cui si compone il film, ma la dimostrazione pratica, in tempo reale, ineludibile, del tempo standard concesso alle vittime appena sopraggiunte in treno direttamente dentro Auschwitz-Birkenau per raggiungere la camera gas e di lì, senza perdere tempo, direttamente dentro i forni per essere trasformate in cenere, dissolversi fisicamente affinché non venga serbata la memoria dei corpi. Il figlio di Saul è forse il film più estremo e a oggi definitivo sulla “soluzione finale” poiché adotta strategicamente il concetto di “dissoluzione” anch’essa finale, definitiva. Dissoluzione delle immagini, del racconto, della visibilità, di cui ne accentua la potenza, l’acquisizione immediata, l’impossibilità di procedere a una rimozione o a un ridimensionamento emotivo, sentimentale, affettivo della portata massiccia della strage. Lo stesso formato dello schermo, con il suo rapporto 1:1,33, rispetto ai convenzionali formati panoramici od orizzontalmente oblunghi, non fa che confermare la scelta di campo: restringere la visuale per allargarne e moltiplicarne l’impatto diretto, non allusivo né elusivo. In questo film di (già) morti che si arrabattano per far qualcosa di utile o di irrazionalmente etico e giusto in una situazione disperata, amorale e abissale, l’unica “soluzione” (della scena) “finale” ragionevole e logica è il raid conclusivo, a pochi passi da un bambino e testimone oculare capitato lì per caso delicatamente invitato ad allontanarsi, delle zelanti SS che sparano sui non meno sventurati fuggitivi, approfittando della “tregua” e del loro ristoro breve, in un angolo di bosco. Gli addetti ai lavori del sonderkommando, quelli eliminati prima o quelli cancellati in chiusura del film, non fa differenza, non sono più fortunati dei loro equivalenti che transitano dalle camere a gas ai forni o dagli obitori o dalle fosse comuni ai corsi d’acqua. Sono semplicemente ex umani o ex persone da impiegare per la morte altrui prima di destinarle ugualmente all’unico alveo concepibile: la morte totale, indifferenziata. Sono appena esemplari modulari e intercambiabili di volta in volta di una specie, di una razza, di un popolo, di un’idea di umanità in esubero da distruggere per intero, senza eccezioni, seguendo appena programmi di priorità. Non importa perciò se l’uomo il figlio l’ha (avuto) davvero, o se la sua sia né più né meno che una fissazione per tenersi occupato e mantenere un equilibrio psichico contingente, né importa capire se quello che ha scovato tra i tanti sia un vero rabbino o semplicemente un altro morituro che ha trovato uno spiraglio di sopravvivenza momentanea. Importa il limite intrinseco di poter vedere, capire, contemperare tutto, attraverso inquadrature che fanno, compongono e contengono quel che possono. Importa la fatica di reggere anche nella sala cinematografica la routine omicida, la pressione della morte che non conosce pause, istanti di riposo, angoli di riflessione e di comprensione di quanto accade, si ripete, non finisce perché non può. Si potrebbe dire, in ultima analisi, che László Nemes ha in qualche modo applicato alla Shoah il medesimo criterio che Giovanni Pascoli prediligeva per fissare dettagliatamente, con perizia onomastica e linguistica, impressioni circoscritte di un mondo altrimenti incomprensibile, sfocato, funesto. La nota lettura di Gianfranco Contini sulla poesia pascoliana è forse l’esempio per dar conto del tragico e spaventoso crinale della “dissoluzione finale” lungo cui si muove Il figlio di Saul: «La determinatezza di Pascoli si accampa sempre sopra un fondo di indeterminatezza che la giustifica dialetticamente. […] Significa che l’indeterminatezza, questo fondo che dialetticamente sorregge il determinato, è esposta in una parola semanticamente sfuggente, artisticamente quanto mai precisa. […] Più il Pascoli è chiaro […] e più radicalmente è irrazionale» (2).

 

(1) Frederick Raphael, Eyes Wide Open, Einaudi, Torino 1999, pagg. 107-108. (2) Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli, testo di una conferenza tenuta a San Mauro in Romagna il 18 dicembre 1955, poi in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970, pagg. 219-245.