CINEFORUM / 552

La scelta dell’intelligenza

Numero all stars, questo 552. Pieno zeppo di titoli da Oscar (e Leoni d’oro). Frutti di stagione. Ma al di là della ricorrenza in quanto tale, l’occasione permette di fare qualche considerazione su una antinomia piuttosto interessante. Prima di tutto va ricordato che gli Academy Awards sono (o quanto meno dovrebbero essere) dei premi “di mestiere”, indirizzati a valutare dunque la qualità dell’attività svolta per i film dagli specifici professionisti. Niente di più sbagliato, quindi, per giudicarne la legittimità, dell’intrecciare a questa motivazione altri criteri (di gusto, di opportunità, di incoraggiamento o di risarcimento verso questo o quel cineasta, di politica culturale in senso lato eccetera). Sfugge alla stretta logica del lavoro ben eseguito forse soltanto il premio al miglior film, anche se, a giudicare da chi va a ricevere concretamente l’agognata statuetta, si tratterebbe anche in questo caso del riconoscimento a una precisa mansione, cioè a quella del produttore, che tutte le fila regge (o dovrebbe reggere) nelle sue mani. Ma che si tratti in realtà di un premio dall’entità più sfuggente di quanto non appaia a prima vista lo denota il fatto che la premiazione al miglior film straniero vede salire sul palco quasi sempre il regista. Non c’è niente da fare: il riconoscimento assegnato a un’opera esula necessariamente dall’ambito del puro “mestiere” per chiamare in causa motivazioni di ordine diverso, comunque lo si voglia definire: attinenti all’idea che un film può essere anche arte. L’antinomia di cui sopra è quella che riguarda, appunto, i due premi al miglior film: quello americano, assegnato a Il caso Spotlight e quello straniero attribuito a Il figlio di Saul. Premesso che del primo parleremo sul prossimo numero di «Cineforum» (i tempi sono dettati dalle date di uscita in sala), è singolare che la medesima qualifica (“migliore”) sia conferita a due opere così diverse per concezione rappresentativa e narrativa, in altre parole per l’idea stessa di cinema di cui sono portatrici. Appassionante quanto rassicurante quello di Tom McCarthy, sostenuto da quel fascino che emanano le “storie vere” soprattutto se coronate da un lieto fine che sa riunire indignazione e fiducia nel successo (la catarsi, la catarsi…); destabilizzante, alieno a ogni tentazione riconciliatrice quello di László Nemes, che si cala nella brutalità cieca della Storia e ce la restituisce senza possibilità di scampo alcuno. Ne emerge comunque, a nostro avviso, la constatazione dell’impasse stilistico-espressiva in cui si trova oggi il cinema hollywoodiano, anche il più apprezzabile (nonostante qualche prevedibile “rinnovamento” omologato già dopo il suo primo mostrarsi) e l’evidenza che le sorprese importanti vengono da chi sceglie di applicare con intelligenza gli strumenti linguistici da sempre a disposizione del cinema, nel corpo a corpo con la materia cruda del racconto.