CINEFORUM / 552

Un fantasma e altri animali

Mózes, il pesce e la colomba, opera prima di Virág Zomborácz, presenta più di un interesse a partire dalla definizione di un contesto poco consueto per il cinema ungherese. Il protagonista è infatti figlio di un pastore protestante, è diplomato in teologia ed è quindi destinato a raccoglierne l’eredità. Dunque il suo ambito – una minoranza in un Paese prevalentemente cattolico – viene ad assumere una connotazione in qualche modo nordica, con tutte le ascendenze nobili che essa potrebbe comportare. Già nell’incipit, la cui frammentazione sembra voler anticipare riassumendoli i temi del film, Mózes ci è presentato come un giovane con seri problemi di comportamento, tanto da essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Alle sue dimissioni abbraccia in maniera composta ma intensa il terapeuta, figura genitoriale sostitutiva, in qualche modo speculare se non proprio oppositiva rispetto a quella paterna, in quanto deputata a risolvere le lacerazioni interiori di cui quest’ultima è stata la causa. Nonostante le raccomandazioni del medico, che gli dice di parlargli spesso ma di rispettarne l’indipendenza, il padre, che attribuisce alla mancanza di carattere i tormenti del figlio, torna a svolgere il proprio influsso negativo al suo primo reinserimento nel nucleo familiare. A tavola, infatti, Mózes, che si è dichiarato vegetariano, viene costretto a ingurgitare una grossa fetta di carne che finirà per vomitare. Il pastore prova a caricarsi di un ruolo più esplicitamente didattico nel momento in cui, citando la Bibbia, afferma che l’uomo deve soggiogare e dominare ogni creatura della terra e ogni pesce del mare, teorizzando la pesca come attività che favorisce la concentrazione, mentre il figlio ostenta un certo ribrezzo nel maneggiare la grossa carpa appena presa all’amo. L’apprendistato a una vita che vorrebbe affrontata con piglio virile passa poi attraverso il racconto della sua esperienza a Tuzla nel 1993, dura quanto formativa, la sollecitazione a imitarla andando in missione in Ucraina e l’incitamento a sorpassare pericolosamente un’auto della polizia. La sua personalità, che ha ridotto la moglie a una sorta di larva remissiva, è probabilmente alla radice delle enuresi notturne di Ramóna, la figlia adottiva, oltre che di quella, diurna, di Mózes, ben più imbarazzante in quanto pubblica, alla consegna del diploma, dieci anni dopo una scommessa fatta con il padre e da lui ormai dimenticata. L’unica figura autonoma per legame familiare, età e robusto egoismo risulta quella di Janka, la zia capace di infischiarsene delle rigide norme del fratello inseguendo senza inibizioni il piacere a dispetto dell’età non più verdissima, nella relazione con un altro prelato che assai poco calvinisticamente gira in Range Rover ed è appassionato di tiro al piattello, un disonesto cialtrone comunque preoccupato di tutelare la propria onorabilità “professionale” dalle chiacchiere dei parrocchiani. A dispetto di questi presupposti, Mózes, il pesce e la colomba non è un film bergmaniano nonostante il volto austero di László Gállfi rimandi a una riconoscibile iconografia. La Zomborácz, infatti, sceglie il registro fantastico per raccontare la vicenda: il padre – padrone muore d’infarto, ripresentandosi poi come spettro davanti allo sguardo attonito del figlio, Utóélet, cioè aldilà, recita il titolo originale in totale coerenza con l’assunto. Tuttavia, per una volta non si può biasimare quello scelto dal distributore italiano. Riservandoci di tornare in seguito sul pesce, una colomba bianca viene liberata dall’officiante al terminenel rito funebre: simboleggia l’anima del defunto e dovrebbe librarsi raggiungendo il cielo, ma si limita a qualche battito d’ali, zampettando poi sulla terra smossa. Fuor di metafora, anche il fantasma del padre è destinato ad aggirarsi tristemente nei luoghi che lo avevano ospitato in vita, almeno fino a quando non gli sarà data pace, secondo i dettami della più classica delle ghost stories. Il suo ruolo però non sarà solo quello, un po’ caricaturale, del rompiscatole che, appollaiato su un mobile o sdraiato sul letto, si intromette tra il figlio e la realizzazione di alcune pratiche sessuali, come la masturbazione ispirata dalle fotografie di un manuale di anatomia femminile o l’amplesso con una giovane tossica in terapia presso la comunità ecclesiale, figura disancorata dai rigori del principio di realtà e per questo, magari un po’ schematicamente, partner ideale per l’iniziazione di Mózes a una vita autonoma oltre che ai piaceri della carne. Da un certo momento in avanti, questa sorta di giovane Holden magiaro comincerà infatti a dialogare con lui, prendendone le distanze ma anche cogliendone la dimensione malinconica, consapevole dell’importanza di risolvere questo rapporto allucinatorio o, se si preferisce, concludere questa del tutto particolare elaborazione del lutto. Il pesce, si diceva. Il protagonista proprio non ce la fa a uccidere la grossa carpa che il padre ha pescato insieme a lui poco prima di morire. Finirà per liberarla nello stesso stagno dal quale proveniva, gesto ancora una volta simbolico, trasgressione (probabilmente) liberatoria compiuta con l’abituale sbadatataggine, cioè dimenticando il remo sul pontile, tanto da essere costretto a spingere la piccola barca con le mani. Ma, insieme agli originali titoli di coda “a caduta”, entrerà in scena una ragazza che, su un natante fornito di remi, saprà forse indirizzare il suo percorso, prima in acqua poi sul pontile e oltre, nella vita. Un altro animale, un bull terrier pezzato di proprietà del pastore gaudente, occupa poi alcuni momenti della narrazione, dapprima aggredendo il malcapitato Mózes, poi finendo sotto le ruote di un’auto, prima di essere ucciso a fucilate da Ramóna quando il fratello sta provando a curarlo. Più che di un simbolo, ci pare che in questo caso si tratti di una citazione. È infatti un esemplare della stessa razza il protagonista dei due Frankenweenie di Tim Burton, sulla cui lunghezza d’onda sembra in parte muoversi la Zomboracz. Personaggio burtoniano per stralunato candore è ad esempio il meccanico esperto di esoterismo, occultismo e trascendenza, sgangherato e tenero adepto di una corrente new age che ha probabilmente fatto breccia nella cultura ungherese del dopo ’89. Ancora all’insegna della fantasmagorìa e di un divertimento quasi slapstick la sequenza in cui Mózes vestito da Vergine Maria manda all’aria la recita natalizia della quale lui stesso è stato regista, mettendo in ridicolo gli oggetti della religione paterna e consegnandoli infine a un fuoco che diventa davvero strumento di purificazione in senso etimologico. Anche il magico e il fantastico non appartengono alla tradizione cinematografica ungherese, con qualche eccezione come l’incantevole Il mio XX secolo di Ildikó Enyedi, della quale la giovane regista è in qualche modo figlia o sorella minore. Quanto al senso dell’umorismo, alla dimensione di commedia che dà respiro e leggerezza a questo film garbato e originale, fa invece parte costitutiva della cultura del Paese danubiano, in quanto ineludibile scudo difensivo per chi è sempre stato ai margini della Storia. Come è noto, al pari dell’Ungheria, anche il suo cinema sta attraversando una fase tutt’altro che facile. Andy Vajna, già produttore di Rambo ed Evita, ora longa manus dell’ineffabile premier Viktor Orbán, ha consistentemente ridimensionato Filmunio, istituzione che aveva saputo dare continuità alla cospicua tradizione degli anni Sessanta, cancellato il Filmszemle, esperienza unica di festival che aveva nel suo statuto l’incontro quotidiano tra autori e pubblico, e avvilito alcune generazioni di autori di acclarato livello. In queste condizioni sembrava impossibile ipotizzare la nascita di nuovi talenti. Poi ci sono stati Il figlio di Saul di László Nemes, che ha fatto giustamente incetta di riconoscimenti internazionali e consensi da parte della critica, il generazionale, gracilino Van valami furcsa és megmagyarazhatatlan (Per qualche inspiegabile ragione) di Gábor Reisz, premiato a Torino, e il duro, sociologico-melodrammatico A szerdai gyerek (Il figlio del mercoledì) di Lili Horváth, che ha vinto a Trieste, opere prime evidentemente diverse per spessore e impegno produttivo ma firmate tutte da trentenni. Mózes, il pesce e la colomba – distribuito in Italia poco dopo quelli di Szász (Il grande quaderno), Mundruczó (White God – Sinfonia per Hagen) e dello stesso Nemes, e anche questa è una buona notizia – testimonia della carsica sopravvivenza di professionalità antiche, aprendo a una cauta ma ragionevole speranza.