CINEFORUM / 553

Attrice o diva? Julianne Moore

«… Macché, solo noi attori esistiamo davvero. Loro, i personaggi, le ombre a cui noi diamo sostanza. Siamo noi i simboli di tutto questo trambusto vasto, consumo che chiamano vita, e solo il simbolo è reale. Dicono che recitare è soltanto finzione. Questa finzione è la sola realtà». (W. Somerset Maugham, La diva Julia)

È difficile rintracciare nella Moore una personalità divistica forte e molto caratterizzata, come invece succede ad alcune altre star dell’olimpo hollywoodiano, passate e presenti. Anche la sua spiccata e particolare connotazione fisica, cioè il colore dei capelli, che nella Hayworth corrisponde a un determinato tipo femminile, quello della vamp, della donna fatale con la sua inarrivabilità, con i suoi lati negativi, estremi, con questa sua seduzione rappresentata in maniera così evidente, plateale, in certi casi addirittura pericolosa (tipici tratti della figura della dark lady), non la avvicina all’immaginario femminino da lei incarnato. Così come non le si addicono, sulle lunghe distanze, i ruoli troppo eccentrici, da pasionaria, introducendo una sorta di scollamento con l’eleganza genetica della sua figura, con la rarefazione che il suo corpo e il suo sguardo introducono. La Moore pare mantenersi abilmente in bilico tra aderenza e distacco dalle figure femminili che incarna, cimentandosi in continuazione in ruoli estremamente eterogenei, che costruisce con l’attenzione e la meticolosità di un prototipo di attrice che non ammette alcuna improvvisazione o spontaneismo nel dar vita al personaggio: un modello attoriale il cui esempio emblematico è rappresentato, tra i tanti possibili, da Meryl Streep. Julianne Moore è un’attrice che in alcuni casi sa occultarsi dietro la propria maschera, che è in grado di imbruttirsi, di nascondersi sotto un paio di lenti spesse, malvestita, senza un filo di trucco (The English Teacher [id., 2013], di Craig Zisk): letteralmente scomparendo, in questo film non eccezionale, dietro la figura di un’anonima insegnante di letteratura inglese della provincia americana, sino a rasentare la tipizzazione. Spesso è impegnata in ruoli minori, nei quali riesce in ogni caso a far emergere le sue migliori qualità di interprete preparata e attenta (vedi la Cora Duvall di La fortuna di Cookie [Cookie’s Fortune, 1999], una sorta di automa, fragile vittima di una sorella dispotica e intrigante); priva di sbavature, ipercontrollata anche quando interpreta ruoli eccessivi, dimostra di possedere e saper utilizzare in maniera rigorosa il proprio bagaglio tecnico. Conferisce carattere e spessore, in I figli degli uomini (Children of Men, 2006) di Alfonso Cuarón, alla Julian Taylor leader dei Pesci, un gruppo terroristico che lotta in difesa degli immigrati in un mondo futuro spopolato e sterile; è un’infelice, intensa e seducentemente affranta Charlotte nel film d’esordio di Tom Ford, A Single Man (id., 2009), madre fallita, divorziata e alcolista, innamorata non più corrisposta di un professore inglese omosessuale, l’ottimo Colin Firth. È possibile anche tentare di individuare, nella lunga carriera dell’attrice comprendente circa sessanta titoli a partire dal 1990, la ricorrenza di determinati ruoli, alla ricerca di un’immagine divistica che in qualche modo lei veicoli e restituisca, permanendo inalterata attraverso i personaggi. Ci si può chiedere se esistano delle figure femminili ricorrenti incarnate dall’attrice, partendo dal 2002 di Lontano dal paradiso (Far form Heaven) di Todd Haynes e The Hours (id.,) di Stephen Daldry, per approdare ai recenti Still Alice (id., 2014) e Maps to the Stars (id., 2014). In Lontano dal paradiso l’attrice è Cathy Whitaker, una casalinga frustrata della provincia americana (Connecticut) degli anni Cinquanta, che sotto la patina brillante di una vita apparentemente agiata, rispettabile e serena vede andare in pezzi il proprio matrimonio a causa di un’“impossibile” relazione omosessuale di suo marito Frank: da questa bellezza e serenità fittizie, un paradiso di prigionia, Cathy cerca di evadere in maniera altrettanto scandalosa per la comunità, stringendo amicizia con un giardiniere di colore, ma in ultima analisi il suo tentativo fallisce, a causa dei lacci che le vengono imposti dal suo ruolo sociale. In The Hours, tratto dal romanzo Le ore di Michael Cunningham, vengono messe in parallelo diverse storie femminili appartenenti a differenti periodi cronologici, tutte ruotanti intorno alla figura di Virginia Woolf e al suo romanzo La signora Dalloway. Ci troviamo di fronte a tre grandi prove d’attrice, da quella di Meryl Streep-Clarissa a quella di Nicole Kidman, che letteralmente scompare sotto la pelle della Woolf, a quella della stessa Moore: di nuovo nei panni di una casalinga (Laura Brown) della media borghesia americana, infelice, ancorché elegante e bellissima, che nel pieno degli anni Quaranta compie una scelta apparentemente egoista, opinabile e controcorrente, abbandonando marito e figli per non morire, per scegliere la vita, come racconta lei stessa, molti anni più tardi, a Clarissa, sullo sfondo del complesso reticolo di storie del film. Still Alice (in cui il regista Glatzer, ammalato di sla, proietta il proprio vissuto nel personaggio di Alice), è il film dell’impegno sociale della Moore: quello in cui l’attrice, invece di usare le sue caratteristiche fisiche per sottolineare la bellezza elegantemente rétro, dolorosa e perfino un po’ statica delle protagoniste di Lontano dal paradiso e The Hours, squaderna con generosità il proprio volto, facendolo coincidere con quello straniante e annientato di una donna preda della malattia e diventando – come è stato scritto – il film. Un discorso complementare può essere fatto per il recente Freeheld – Amore, giustizia, eguaglianza (Freeheld, 2015): in una pellicola dagli evidenti limiti strutturali – di sceneggiatura, di impianto narrativo e figurativo – che pare proporsi come unico obiettivo quello di sintetizzare e liquidare sbrigativamente, per puro dovere di cronaca, una storia vera, peraltro pietra miliare nella storia delle lotte per l’acquisizione dei diritti civili delle coppie di fatto omosessuali, la Laurel della Moore emerge dalla rigorosa glacialità del legal drama condensando il doppio registro interpretativo di cui la diva – come vedremo – si fa portatrice, e nello stesso tempo comprovando la perizia dell’interprete. Nella prima parte del film Moore utilizza la propria fisicità, una bellezza esibita ma caricata di sfumature mascoline e virili (l’abbagliante luce della capigliatura bionda, associata alla camminata maschile, alla ruvidezza di parole e modi), per avvicinarsi alla figura dell’autentica Laurel Hester, riuscendo nell’intento anche solo a livello puramente esteriore (come documentano le fotografie finali). In questa fase la Moore è ancora la diva riconoscibile, per caratteri fisici e fisionomici (il corpo, il volto, la trasparenza caratterizzante dello sguardo), ma è anche, nello stesso tempo, già il personaggio che si appresta a caratterizzare, ovvero la poliziotta capace e, a tratti, dura, la stakanovista del proprio lavoro, per cui è capace di perdere le notti come di nascondere ad arte una vita privata e un personale orientamento sessuale che costituirebbero dei potenziali limiti alla carriera. Nella seconda parte, sfruttando ed evidenziando l’arco evolutivo del personaggio (pur fortemente limitata, come la coprotagonista Ellen Page, del resto, da un contesto narrativo banale e stereotipato), Julianne Moore, la diva, sparisce progressivamente dentro e dietro il ruolo, trasformandosi in Laurel, la malata di cancro allo stadio terminale (l’infermità mentale che caratterizzava la protagonista di Still Alice si pone qui in perfetto parallelismo con quella fisica della Hester), ma anche – come è tipico di molte altre figure femminili da lei incarnate – la lottatrice coraggiosa, dignitosa e mai interamente piegata dall’ingiustizia, dalla sofferenza fisica e spirituale, e, in definitiva, da un destino avverso. È qui che la diva diviene attrice: che si evidenzia, insomma, la capacità dell’interprete di prestare corpo, viso, voce al proprio personaggio, accettando che quest’ultimo, con la forza della messinscena, prenda il sopravvento su quegli elementi di riconoscibilità e insieme di continuità, pur nella diversità dei ruoli, che concorrono a caratterizzare la specificità della sua immagine di star. Qui la Moore non è il film, come invece accade nel precedente Still Alice (e come sottolinea a ragion veduta Tina Porcelli in «Cineforum»); ne rappresenta, tuttavia, una buonissima parte, velando il suo sguardo della cognizione del dolore, marchiando a fuoco il volto, il fisico divenuto inconsistente per la malattia, il portamento dell’abito greve, seppur dignitosamente abitato, della sofferenza. È qui, infine, che i molti volti, il doppio binario interpretativo entro il quale è possibile racchiudere e leggere la figura attoriale della Moore, approdano a una parziale ricomposizione nell’alveo magmatico del personaggio di Laurel. Maps to the Stars è altro ancora, nella rappresentazione dei molti volti di un’attrice-diva: qui la Moore, come il resto del cast, pare ironicamente autocitarsi dando vita a Havana Segrand, un’attricetta nevrotica esasperata ed esasperante, complessata dal rapporto edipico mai risolto con la madre defunta, attrice di talento, nell’impietosa e feroce rappresentazione che Cronenberg dà del foltissimo e caotico sottobosco hollywoodiano, in cui proliferano attori e aspiranti tali spesso dichiaratamente folli. È possibile, dunque, provare a racchiudere le interpretazioni della Moore in due macroruoli: la Good Girl e la Bad Girl. La Good Girl (in cui possiamo fare rientrare la Kathy, la Laura, la Alice e in ultimo la Laurel dei film citati): una donna intelligente, emancipata o in via di affrancamento da costrizioni familiari e sociali, sovente buona moglie e madre di famiglia. Si tratta di una figura fragile e forte insieme, che partendo dalle difficoltà oggettive che rientrano nel proprio orizzonte di vita cerca in qualche modo di superarle, di andare oltre, da sola e senza l’aiuto di un contesto parentale o di altri supporti alle spalle. La Good Girl è sempre in cammino, in cerca della propria libertà e autonomia, attiva e reattiva (pensiamo anche ai molteplici ruoli di studiosa, di scienziata rivestiti, anche in pellicole dichiaratamente commerciali). La Bad Girl contrappone, invece, all’immagine femminile appena descritta una figura più trasgressiva e oscura, in cui la bellezza diventa stregonesca e la madre di famiglia si trasforma in una donna estremamente fragile, labile, ossessionata dai propri fantasmi. Tipiche espressioni di questo macroruolo sono la citata Havana di Maps to the Stars, come la Susanna di Quel che sapeva Maisie (What Maisie Knew, 2012) di Scott McGehee e David Siegel (adattamento dell’omonimo romanzo di Henry James), una rockstar isterica, nevrotica ed egoista, che riversa tutte le sue debolezze nel rapporto con la figlia di sei anni, dal cui punto di vista è narrata la storia; ancora, la Amber Waves di Boogie Nights – L’altra Hollywood (Boogie Nights, 1997), pornostar dedita alle droghe e la Linda di Magnolia (id., 1999), moglie nevrotica, fedifraga e tardivamente pentita di un uomo malato terminale. Infine, possiamo citare la Barbara Daly Baekeland di Savage Grace (id., 2007) di Tom Crane moglie dell’inventore della bachelite Leo Baekeland: una donna estremamente possessiva, gelosa degli spazi di libertà del marito e del figlio, e madre castrante, isterica, arrivista, fino ad approdare al rapporto incestuoso; e la Carol White di Safe (id., 1995), che a partire dalla propria allergia alla polvere e ai derivati chimici sviluppa una vera e propria patologica ossessione. Si estrinseca in questo tentativo di categorizzazione dei ruoli una versatile personalità attoriale che pone la sua ieratica bellezza al servizio di una figura femminile in perenne metamorfosi, collocandosi a metà strada tra l’attrice e la diva. In questo senso, le è adattabile il giudizio che Richard Dyer riporta a proposito dei differenti stili recitativi di Meryl Streep e Arnold Schwarzenegger (in particolare, per quanto riguarda la prima): «King traccia un’altra distinzione nella recitazione tra “impersonare” e “personificare”. Impersonare è prodotto dalle trasformazioni del corpo e della voce dell’attore in modo da esprimere differenze tra i personaggi interpretati. Ad esempio Meryl Streep è ben nota per aver adottato vari accenti nell’interpretare i suoi ruoli in La donna del tenente francese, La scelta di Sophie, Silkwood e La mia Africa. Al contrario, le performance di Arnold Schwarzenegger in Predator, Gemelli, e Terminator 2 – Il giorno del giudizio, mostrano molte somiglianze negli usi del corpo e della voce. La “personificazione” di Schwarzenegger mette in primo piano la continuità dell’immagine divistica oltre le differenze dei personaggi. Mentre si può dire che tutti gli attori cinematografici recitano sullo schermo, è solo per il modo in cui lo fanno che saranno giudicati “veri attori”. Gli accenti di Meryl Streep ne rivelano le capacità rappresentative e l’impegno propri di una interpretazione drammatica. […] Con Schwarzenegger, benché ogni suo film costituisca una situazione narrativa di finzione – e pertanto egli senza dubbio reciti – la mancanza di differenza nelle sue interpretazioni ha prodotto la critica comune secondo la quale egli non recita perché “interpreta sempre se stesso”. […] Le capacità interpretative di Meryl Streep la integrano nel racconto, anche se conserva alcuni manierismi consapevolmente personali nei suoi ruoli, che la collocano a metà tra l’impersonare integrato e la personificazione autonoma come un “divo-attore”» (Paul MacDonald, Riconsiderare il divismo, in Richard Dyer, Star, Kaplan, Torino 2003, pagg. 223-225).