CINEFORUM / 554

Il risveglio del giudice Racine

Un autore mancato

V’è indubbiamente qualcosa che a Christian Vincent non abbiamo mai saputo perdonare: l’aver tradito le aspettative altissime che, un po’ incautamente forse, venticinque anni fa, all’epoca del suo folgorante esordio nel lungometraggio, avevamo riversato su di lui. Nel 1990, La timida (La discrète) fu per molti di noi un’autentica rivelazione (un po’ come per Racine, al suo risveglio dal coma, l’apparizione di Ditte). La pellicola si presentava come uno squisito, raffinatissimo esercizio di stile che, ragionando sul tema della seduzione amorosa (e sul rapporto tra autore e creazione narrativa), esibiva una sapiente, mediatissima e rigorosissima struttura drammaturgica, dietro la quale era ben agevole cogliere la lezione del cinema di Rohmer (la presenza già allora di uno stupefacente Fabrice Luchini era lì a certificare quel richiamo). Il film conobbe un clamoroso e più che meritato successo. Tuttavia, nelle sue prove successive, Vincent ha scelto di muoversi, curiosamente, su direttrici diverse optando per costruzioni drammatiche dal respiro più esile, meno preordinate e meno rifinite, che gli consentissero di privilegiare il lavoro di messa in scena, il ritratto dei personaggi, la definizione degli ambienti, anche a costo di sacrificare l’aspetto più propriamente narrativo, che avrebbe potuto denunciare qualche manchevolezza. E così, se Beau fixe (1992) e La séparation (1994) erano illuminati da uno sguardo costantemente fresco e intenso, il problema di un film come Hotel cinque stelle (Quattre étoiles, 2006) era quello di sostenersi su un copione pigro, asettico, piattamente derivativo, dove i richiami a Hitchcock e a Lubitsch apparivano sconsideratamente ambiziosi. Anche La cuoca del Presidente (Les saveurs du Palais, 2012), benché confortato dalla presenza di Catherine Frot, conservava nell’impianto narrativo qualcosa di macchinoso e di prevedibile. A questo punto Vincent avrà avvertito l’esigenza di affidarsi, per questo suo ultimo lavoro (il suo decimo lungometraggio, per la precisione), a una sceneggiatura di più solida fattura, meglio cesellata e rifinita, che gli garantisse l’opportunità di mettere a frutto le sue indubbie capacità di metteur en scène. Il miracolo di La timida non si è ripetuto, è vero. E tuttavia una pellicola come La corte rappresenta un risultato di buon livello, capace di imprimere un salto di qualità nella produzione del regista francese, fors’anche di additare l’apertura di un percorso nuovo, ricco di possibilità e di sviluppi.

Riscatti

Commedia “di carattere”, in equilibrio tra registri variabili, dove accenti scanzonati e arguti sconfinano talora in tonalità più cupe, fin quasi tragiche, La corte è incentrata sul personaggio di Racine, temutissimo e implacabile giudice del Palazzo di Giustizia di Saint-Omer, dove è soprannominato “presidente a due cifre” per la sua inveterata attitudine a infliggere ai malfattori condanne mai inferiori ai dieci anni. Detestato e deriso da tutti per lo zelo e l’intransigenza feroce con cui conduce i processi, nonché per i modi sprezzanti che riserva a colleghi e sottoposti, Racine si presenta a tutta prima come un individuo sgradevole e scostante. Magistrato scrupoloso nel rispetto delle procedure, egli si è creato tuttavia, nel suo ambiente, la fama di uomo duro, inflessibile nell’applicare il rigore della legge. Vicino ormai alla fine della carriera, si trova a condurre una vita privata solitaria e senza gioia: la moglie, che è in attesa del divorzio, lo ha cacciato di casa, e così lui si è dovuto trasferire in una camera d’albergo, dove trascorre le serate a studiare le carte processuali. Se il personaggio interpretato da Luchini è il centro motore del film, il contesto ambientale che gli ruota attorno è ritratto da Vincent con sguardo svelto e puntuto, ma mai davvero cattivo (il cinema di Vincent non prevede personaggi odiosi; tutt’al più figure indisponenti, ma osservate pur sempre con una certa indulgente bonomia). Il Nord-Pas-de-Calais – una delle regioni più povere della Francia – viene a rappresentare nel film uno scenario grigio, popolato com’è da un’umanità miserabile, incattivita dal malessere economico. Le persone che affollano l’aula del tribunale – l’uomo incriminato di un atroce delitto, chiuso in un silenzio attonito, rancoroso; la sua confusa consorte, forse complice del misfatto; taluni dei testimoni e membri della giuria; gli stessi uomini della legge – vengono a comporre un campionario umano e sociale impregnato di tensioni sotterranee (l’islamico che ciancia sulla necessità, per un marito, di “proteggere” la moglie dalle attenzioni maschili), stolti pregiudizi, ignoranza, dove le abissali diversità – etniche, di ceto, di educazione, di cultura – sono ben leggibili nei differenti modi di vestire, di atteggiarsi, di parlare (anche se poi Vincent, che è abilissimo nel dare naturalezza e spessore con pochi tratti incisivi ai ruoli minori, spesso ricoperti da interpreti non professionisti, nel contempo sembra volerci esortare a non lasciarci irretire dalle apparenze ingannevoli, ma a giudicare le persone al di là delle impressioni superficiali che ci comunicano). La vicenda è condotta lungo un duplice percorso narrativo, intrecciando i modi del legal movie (le fasi di uno spinoso caso criminale che vede alla sbarra un giovane disoccupato accusato di aver ucciso a calci la propria figlioletta) e un intrigo sentimentale (la ricostruzione del romantico idillio tra Racine e una donna della giuria), dove lo svolgimento processuale – le testimonianze, gli interrogatori, le schermaglie verbali – che, secondo consuetudine, dovrebbe costituire il nerbo della narrazione, via via che il racconto procede rischia quasi di restare confinato sullo sfondo, a tutto vantaggio della storia d’amore (e di riscatto morale) che coinvolge il protagonista della pellicola. Un finale aperto ci consentirà di conoscere l’esito del processo, non già di acquisire la certezza circa l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato: una conclusione imprevedibile e anomala (ma già nel corso del film Vincent era apparso maggiormente interessato a riflettere sul rapporto ambiguo tra giustizia e verità dei fatti, piuttosto che a condurre a compimento il meccanismo “giallo”, sciogliendo i dubbi sulle dinamiche del delitto), che, eludendo le scadenze consolidate del film processuale, viene di fatto a sancire l’avvenuta trasformazione (e redenzione) dell’eroe. L’incontro con Ditte – figura salvifica e solare, chiamata a illuminare di nuova luce la spenta quotidianità del nostro magistrato – offrirà infatti a Racine l’opportunità di un mutamento, di una riscoperta del lato più segreto, vitale ed emotivo di se stesso. Il riaccendersi di un lontano turbamento d’amore (anni addietro, lui aveva avuto un grave incidente; risvegliatosi dal coma in un letto d’ospedale, aveva scoperto accanto a sé la bella anestesista e ne era rimasto ammaliato) darà modo all’eroe di avviare un percorso catartico che lo condurrà a ricusare le granitiche certezze su cui si era incagliata la sua esistenza. La maschera imperturbabile e anaffettiva di magistrato integerrimo, interamente calato nella “logica della colpa”, potrà allora crollare miseramente. Scoprendosi fragile e innamorato, Michel si umanizza. Abbandona il suo furente disdegno verso i suoi simili. Scopre l’indulgenza, la compassione. Rinuncia alla propria presunzione. Arriva a riconoscere i limiti del proprio ruolo: ai membri della giuria farà intendere come la verità dei fatti che il processo si affanna a voler inseguire sia destinata in ogni caso a rimanere un mistero insondabile. Se la figura di Racine appare cucita su misura per la versatilità interpretativa di Luchini (che qui però, a conferma di una tendenza ormai in atto da qualche anno, non si concede svolazzi istrionici, ma recita per sottrazione, rendendo il sottile turbamento del suo personaggio attraverso una mimica sobria, di inattesa asciuttezza), la sceneggiatura della pellicola conserva qualcosa dell’huis clos teatrale: l’aula del tribunale – uno spazio scenico vincolante, improntato sull’unità di luogo di tradizione aristotelica – è il palcoscenico su cui si evoca un evento tragico. Lo svolgimento del processo diviene allora la messa in scena di uno spettacolo (Vincent: «La corte è un po’ come un teatro, con il pubblico, gli attori, la sceneggiatura, le quinte»), la rappresentazione di un dramma familiare dove il tessuto dialogico assume un peso rilevante (Ancora Vincent: «È il regno della parola, fondato essenzialmente sulla natura orale del dibattito»). Non a caso, durante la scena madre del processo, l’avvocato della difesa avrà buon gioco a smontare la testimonianza di un poliziotto mettendo in luce quanto d’inverosimile vi fosse nel linguaggio pretenzioso con cui il suo assistito, un uomo privo di cultura, aveva reso la propria confessione. Per contro, Racine (un cognome che, a questo punto, può apparirci non casuale), in quello che ci piace leggere come un gentile tributo offerto al “fine dicitore” Luchini, avrà un bel provarsi a recitare in un bistrot Le passanti di Brassens: la figlia adolescente di Ditte sarà troppo impegnata a rispondere alle chiamate sul proprio smartphone per prestare ascolto alla sua esibizione.