CINEFORUM / 554

Nero come petrolio

La morte di Pier Paolo Pasolini è a tutt'oggi un mistero irrisolto. A Ostia, dove si è consumata la sua tragica agonia, cresce erba incolta e si accumulano rifiuti. Ma come non si poteva mettere a tacere Pasolini, non si può mettere a tacere ciò che lui è stato per il nostro Paese. Sebbene in questi decenni si siano succeduti processi, indagini, nuove confessioni, libri e anche altri film, nulla, come questa nuova, coraggiosa pellicola di David Grieco, sembra essere davvero utile per fare luce sul controverso enigma della fine di Pasolini. La macchinazione appartiene a quel tipo di cinema necessario per comprendere il mondo che ci circonda e soprattutto per non dimenticare importanti pagine della Storia. Un film doveroso e imprescindibile, un po' come le magnifiche ossessioni del regista cileno Patricio Guzmán che, attraverso immagini in bilico tra poesia ed etica, ci porta per mano in un racconto doloroso recente e passato del suo Cile. Il nostro è un Paese geneticamente dedito a questa pratica e, una volta passato il tempo della grancassa mediatica, arriva quello del torpore e non è certo stato facile per il regista di La macchinazione riaprire pagine dolorose come quelle evocate dall’omicidio di Pasolini. Grieco si è trovato a ingaggiare una titanica sfida ma lui di quegli eventi, del personaggio e soprattutto dell’uomo Pasolini è stato un testimone privilegiato che ha avuto la fortuna e anche l’onere di avere informazioni di prima mano avvertendo l'urgenza di condividerle. Il film, sceneggiato in collaborazione con il professore Guido Bulla scomparso poco prima dell’uscita, compone una sorta di dittico con l’omonimo libro che Grieco ha pubblicato per Rizzoli, in cui si può rinvenire una miniera di informazioni che integrano ed esplicitano alcuni passaggi visivamente più condensati. Soprattutto, ci delucida su circostanze non documentate che nella pellicola prendono la forma d’invenzioni poetiche ma che, purtroppo, con l’immaginazione hanno poco a che vedere. Tanto che con Pasolini e la sua opera cinematografica, alla vigilia dell’uscita, il film di Grieco ha condiviso involontariamente un’oscura coincidenza. Mi riferisco alla maledizione della censura che in un primo grado di giudizio aveva vietato La macchinazione ai minori di quattordici anni, una sorte simile a quella che ha colpito quasi tutta la produzione cinematografica pasoliniana. Entrando nel merito della pellicola notiamo che, dal punto di vista contenutistico, La macchinazione poggia su tre grandi sostegni. Il primo, il più manifesto, tenta di scardinare la grande menzogna che Pasolini sia stato ucciso da quel povero diavolo di Pino Pelosi dopo una serata di sesso dagli sviluppi incontrollati. Pelosi è stato solo un’esca più o meno consapevole, fondamentale per attirare la vittima in una trappola ordita nei minimi dettagli e i responsabili della sua morte furono ben più di uno. In questa perfida congiura, il furto dei negativi di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) alla Technicolor e il più che comprensibile desiderio di Pasolini di rientrarne in possesso, rappresentano la verosimile causa che poteva condurlo quella tragica notte all’Idroscalo di Ostia. Un altro cardine del film è la confusa e geniale lucidità che portò Pasolini a concepire in quei mesi il libro Petrolio. In un tempo storico che racchiude anche l’apice del terrorismo stragista, l’opera diventa il ritratto noir di un Paese coi suoi mille segreti e misteri in cui egli individua in Eugenio Cefis, presidente prima di Montedison e poi di ENI, friulano come lui e pressoché coetaneo, il grande manovratore di tutti quei fili. Tra questi anche la creazione della Loggia massonica Propaganda 2 e il misterioso incidente aereo in cui perì Enrico Mattei, la cui visione politico/imprenditoriale era in contrasto con quella di Cefis. Un’opera con cui l'intellettuale friulano in qualche modo anticipa il nostro presente, elargendoci anche la lungimirante e profetica visione della fine delle ideologie che rende impossibile distinguere un comunista da un fascista, concetto allora inconcepibile se non altamente provocatorio. Un ulteriore déjà vu che perviene dalla visione del film e si aggancia al presente è l’inquietante percezione che, a distanza di oltre trentacinque anni da quei giorni, il nostro Paese sia rimasto sostanzialmente lo stesso, con i suoi inconfessabili e irrisolti segreti, dove presenze più o meno occulte sono sempre accanto a noi, in uno svolgimento tragico e immutabile dei giochi di potere. L’urgenza di Grieco, alimentata dal proscioglimento della collaborazione con Abel Ferrara per il suo Pasolini (2014) a causa di inconciliabili presupposti, sta proprio nel tentativo di leggere il presente partendo dagli ultimi giorni di Pasolini. Il regista sceglie deliberatamente di tuffarci in una visione anni Settanta anche da un punto di vista linguistico e d’immagine. Siamo molto lontani, per esempio, dai docufilm di Oliver Stone che lavora sul ritmo incessante e nervoso per costruire le sue personali letture delle conspiracy theory della storia americana e non. Già a partire dal titolo, “macchinazione” e non cospirazione, complotto, congiura… Grieco sceglie con ponderazione e precisione un sostantivo di derivazione latina (machinatio) e che nel nostro codice civile si usa per indicare un raggiro, che abbia tolto a una parte la possibilità di difendere in tempo utile i propri interessi. Un sostantivo inoltre che descrive perfettamente una costruzione quasi meccanicistica e concatenata di eventi, della quale, durante il film, pare udirne addirittura il ticchettio, sino al finale quando da sottofondo diventa rumore assordante con la moltitudine di trivelle petrolifere che si materializzano all’idroscalo di Ostia. Una metafora frutto dell’immaginazione del cosceneggiatore Guido Bulla e che incarna alla perfezione il pensiero di Grieco sulle cause della fine di Pasolini. Attraverso le sue invenzioni poetiche, immaginarie ma assolutamente plausibili, il regista escogita la circostanza dell’incontro tra Pasolini e l’autore ignoto che con lo pseudonimo di Giorgio Steimetz pubblicò nel 1972 Questo è Cefis edito da Agenzia Milano Informazioni. Un testo contenente precise descrizioni di fatti e società riconducibili al grand commis friulano, probabilmente scritto da Graziano Verzotto, democristiano doroteo vicino a Mariano Rumor e grande avversario di Cefis. Un libro fatto scomparire immediatamente dopo la pubblicazione, del quale Pasolini possedeva una fotocopia e che di fatto è la “madre” delle fonti per il suo Petrolio. Ciò che Grieco suggerisce è che Pasolini, nel suo tentativo di usare quel testo citandolo come un qualsiasi “ladro di citazioni” per far uscire allo scoperto Cefis, abbia di fatto commesso un peccato di hybris, pensando erroneamente che la sua fama lo avrebbe salvaguardato da pericolose ritorsioni. Un altro frammento di esegesi pasoliniana analizzato dal film è quello della polemica seguita alle sue dichiarazioni provocatorie sul ruolo dell’istruzione di massa. Una querelle che Grieco affronta e approfondisce mettendo in scena altri due incontri d’invenzione: uno con un giornalista francese e l’altro, nella trattoria in cui Pasolini aveva cenato con Pelosi la sera dell’omicidio, con un giovane studente universitario dal severo difetto di pronuncia. Quest'ultimo, inaspettato e disarmante, dischiude uno straordinario momento di umanità di Pasolini che, davanti alle domande incalzanti e umili di questa persona integra e sincera, esita e vacilla nelle sue granitiche certezze. Asseriva infatti Pasolini che la scuola dell’obbligo era stata un grave errore perché aveva azzerato le differenze sociali, producendo in tutti gli stessi bisogni, alimentati dalla società dei consumi. Tanto è vero che, passando con il giornalista francese davanti al cartellone pubblicitario dei “jeans Jesus”, Grieco fa dire amaramente al suo Pasolini che il Jesus che ha conquistato la nostra società non è quello del Vaticano ma quello della pubblicità. Infine, la terza architrave del film affronta l’aspetto della vita familiare dello scrittore friulano raccontandolo con grande dolcezza, come ad esempio il rapporto così intimo che egli condivideva con sua madre Susanna, interpretata da una struggente e straordinaria Milena Vukotic. Una presenza assai discreta ma fondamentale per Pasolini, basata su un affetto straordinario e una grande sintonia. Grieco mette in scena una madre complice e sodale, che si informa delle frequentazioni amorose del figlio e lo accudisce anche per le situazioni più frivole. Si pensi per esempio alla scena in cui lei è impegnata a tingergli i capelli, con l’immagine finale del mulinello d’acqua nella vasca che si trascina via i residui corvini della tintura nel risciacquo, quasi la rappresentazione visiva di una vita che sta per finire nel gorgo oscuro di eventi immanenti straordinari e atroci nel loro esito finale. Il film, dopo i titoli di testa disegnati da Nicola Verlato e ispirati al martirio pasoliniano, parte con un’inquadratura sorprendente di Massimo Ranieri che fa sobbalzare lo spettatore per la sua straordinaria somiglianza fisica con Pasolini di cui si parlava già negli anni Settanta. Argomento anche di un breve dialogo, nell’unico incontro avvenuto tra i due su un campetto di calcio della periferia romana. Lo stile scelto da Grieco, ricorda quello dei grandi gialli televisivi degli anni Settanta e Ottanta prodotti dalla RAI, scritti da grandi autori del genere e diretti da raffinati registi come Daniele D’Anza, Salvatore Nocita, Alberto Negrin o Leonardo Cortese. Movimenti di macchina lenti, un tempo quasi sospeso, un'abile costruzione all’interno dell’inquadratura e una fotografia leggermente desaturata che lascia spazio a frammenti quasi in bianco e nero che hanno il ruolo d’interpunzione tra una sequenza e l’altra: sono i fondamenti cui si affida Grieco nella realizzazione della sua regia. Una regia che ricostruisce luoghi e atmosfere degli anni Settanta con una cura certosina dei dettagli, anche sonori. Il ritmo all’inizio pacato, a poco a poco accelera, sino a raggiungere l’apice nel finale, nell’alternanza tra la rappresentazione mattanza cui viene scaraventato il poeta e la sua scientifica organizzazione. Il tutto contrappuntato dalla colonna sonora dei Pink Floyd, anch’essa profondamente figlia di quegli anni, un fatto che ha dello straordinario perché il permesso del gruppo inglese per l’uso di Atom Heart Mother Suite (1970), fu rifiutato perfino a Stanley Kubrick per Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971). Una concessione che Grieco si è meritato ampiamente perché la musica dei Pink Floyd si fa accompagnamento necessario nella costruzione del personaggio Pasolini. Nel finale poi si ritaglia un ruolo di primo piano, trasformandosi in un tragico e commovente requiem laico, dolorosa eco del martirio, dove il suo volto si trasfigura in una maschera sopraffatta e sanguinolenta che ricorda il Cristo Morto del Mantegna. Una musica che con grande potenza dà voce alla rabbia di chi – in tutti questi anni – ha sempre saputo. Pasolini ha avuto lo straordinario coraggio di ricercare le prove di ciò che sapeva e questa voglia di giustizia lo ha condannato a una morte orribile, su cui speriamo, grazie anche a questo film e alle sue rivelazioni, che una Commissione d’inchiesta parlamentare possa dirci qualcosa di definitivo ma soprattutto di vero.