CINEFORUM / 555

Ricordi

Chi pensa che il presente sia tutto ciò che abbiamo sbaglia: è il passato ciò di cui siamo fatti. Lo sapeva bene William Shakespeare, lo sapeva bene Philip K. Dick. Lo sapeva bene Pasolini, naturalmente, quando si definì “una forza del passato”, provocando così lo scandalo in un’epoca indefessamente votata a preparare tappeti rossi e carte false all’avvento di un futuro che si immaginava radioso e sarebbe stato invece sempre più cupo. L’anima del passato, dunque anche la nostra anima, sono i ricordi. Alcuni dei film trattati in questo numero ce lo chiariscono in maniera lancinante, primi fra gli altri i due di Patricio Guzmán, nei quali i molteplici strati di cui è costituita la dimensione della memoria si intrecciano, fondendosi in una consapevolezza dolorosa dell’inseparabilità della sfera individuale non soltanto da quella sociale e storica ma anche da quella naturale-cosmica (esiste davvero, quest’ultima? oppure è soltanto l’invenzione di quella forma di ipersensibilità cui diamo talvolta il nome di poesia?). La memoria dell’acqua e Nostalgia della luce, in virtù di questo loro impianto contenutistico e stilistico, sono anche film “politici”: ci costringono, infatti, a fare i conti con un’esperienza brutale (il golpe cileno del 1973, di cui Guzmán è stato testimone) che spezzò un sogno di giustizia e a riconoscere la piena legittimità – umana, etica, artistica – dell’esigenza conseguente «di raccontare quei giorni ma soprattutto del tentativo di comprendere ed esorcizzare quella sofferenza lacerante». Da parte loro, fronte alla prospettiva di vedere il Platz «dissolversi nel nulla», i fratelli de Serio si sono a loro volta schierati a difesa della funzione rammemorante delle immagini cinematografiche: «Fare questo film, per noi (come del resto fare qualunque documentario), voleva dire trattenere i ricordi, dare un'opportunità in più alla vita di essere ricordata». Se c’è stato chi ha parlato a buon diritto del cinema come morte al lavoro, è altrettanto vero che ogni proiezione in cui è possibile cortocircuitare il passato delle riprese con il presente della visione che si ripete di volta in volta ci restituisce nella sua completezza il significato e, per così dire, la vocazione del cinema tout court, del suo sguardo così volatile e tuttavia così denso. Alla luce di ciò, la sequenza finale di Al di là delle montagne si impone ancora di più in tutta la sua dolente oscillazione tra un passato vitale che la gestualità ipnotica della danza fa riemergere e il “presente” malato (Jia Zhangke lo smaterializza definitivamente collocandolo, sul piano diegetico, in un futuro tanto più irridente quanto così prossimo a noi, “a portata di mano”) che a quella danza si affida come a un rito. Anche in questo caso siamo di fronte alla messa in scena dell’esorcismo di una sofferenza, non meno reale per l’autore anche se sublimata nel racconto e nella finzione. E anche qui non è permessa – al personaggio così come a noi spettatori che in lui ci identifichiamo – alcuna aspettativa di salvezza, diversa dal rivivere la nostalgia di un sogno quando era ancora sogno.