CINEFORUM / 556

Senza lasciare traccia

Fuoco che brucia, che purifica, che distrugge e fa rinascere; che aiuta, dà calore ma anche annienta; e che va continuamente alimentato, come il rancore. Il fuoco può incuriosire, com’è successo al protagonista di Senza lasciare traccia, Bruno, quand’era bambino; e può essere qualcosa a cui tornare, con cui è necessario confrontarsi, ancora una volta, per chiudere con il passato e poter così accogliere il presente, e il poco futuro che resta. Perché l’uomo è dilaniato da un male incurabile, profondamente legato a un trauma che ha subito nell’infanzia, e non può non tornare ad esso, e quindi tornare nel luogo dell’abuso, prima di concludere una vita che è apparentemente serena, casa grande, compagna innamorata, due bei cani e un lavoro da insegnante che ha dovuto interrompere per questo. Per aspettare di morire. Il luogo a cui deve tornare, approfittando di un impegno di lavoro della moglie, si trova in una campagna indefinita ed è una vecchia fornace gestita da un uomo e da sua figlia, Vera, che dell’abuso di Bruno sono stati i testimoni; è su di loro che il protagonista vuole consumare la sua vendetta, senza sapere che il vero colpevole è un altro. È come se tutto il rimosso, tutta la rabbia rimossa per anni emergesse all’improvviso e lo facesse agire, e poi forse pacificare. Il caldo, il sudore, il nero del carbone e il rosso del sangue provocato, che scivola via nella doccia; e che ricorda altro sangue, altro dolore. Forse adesso si può vivere; il nodo è sciolto; e anche Elena che non sa nulla ha capito, e accettato. E lo invita a tornare a casa. Il film è infatti, dopo il prologo domestico che pone il tema della malattia, una sorta di viaggio in un luogo “altro”, segnato dalla sequenza stralunata dell’autostrada, che è innanzitutto un luogo dell’anima per cui il viaggio è un viaggio interiore, che ha carattere psicologico ma anche archetipico ed esistenziale: l’eroe che torna nel proprio passato per compiere la sua azione che non è la morte eroica cioè la morte in battaglia per salvare il proprio onore o per un ideale che riguarda tutta la collettività, secondo il significato classico del termine ?ρως, ma un risarcimento parziale che si prende per giungere a una morte non voluta né cercata, quella che la malattia gli procurerà. Malattia che ha le forme di un intruso che si è intrufolato in lui, come lui è entrato in casa di Giulio e Vera sotto mentite spoglie, per massacrarli. Anche se poi non lo fa, o almeno così pare… Perché l’elemento più interessante del film, al di là della trama e del significato, è il lavoro di sottrazione che il regista ha fatto per cui quello che vediamo è l’essenziale, e il resto rimane aperto… Il che ci apre il discorso in realtà più importante, quello sulle scelte di regia. Intanto perché inizialmente il film era un altro, molto più didascalico, con la sequenza dell’abuso nel prologo, ma siccome il didascalismo era eccessivo, Cappai con grande coraggio l’ha rimontato completamente. Poi perché il regista sa lavorare sugli spazi e sulle atmosfere, costruendo un film di genere (revenge movie, thriller) che di genere non è, perché i generi sono molti ma soprattutto perché l’interesse è psicologico e la chiave è esistenziale, metafisica, sospesa, pregna di elementi simbolici. In questo senso, parlavo di spazi e atmosfere: la campagna autunnale qui è davvero un luogo dell’anima che potrebbe trovarsi ovunque, come la fornace è il luogo classico del male. La musica di Teardo completa il quadro delle suggestioni e dell’inquietudine e gli attori sono tutti perfettamente in parte, specie Riondino e la Cervi, complici nel non detto che caratterizza loro, e lo stile del film.