CINEFORUM / 562

Il fantasma della verità

Prima di esordire nella fiction con Il Ragno Rosso (Czerwony paj?k, 2015), Marcin Kosza?ka è stato direttore della fotografia e documentarista, premiato nei festival nazionali e internazionali in entrambi i ruoli. Come ha scritto Fabrizio Grosoli nel Catalogo del Trieste Film Festival 2016, che al cineasta polacco ha dedicato un' ampia retrospettiva, «questo passaggio non rappresenta un salto in avanti sorprendente e illogico dal reale al noir, ma al contrario sottolinea la continuità esemplare di un percorso artistico totalmente coerente fin dal suo esordio alle soglie degli anni Duemila». E questo vale a prescindere dal fatto che il lungometraggio sia stato in qualche modo anticipato da Zabójca z lubie?no?ci (t.l.: Il killer lussurioso, 2014), un documentario su Joachim Knycha?a, soprannominato il vampiro di Bytom, che uccise cinque donne tra il 1975 e il 1982. Nato a Cracovia nel 1970, Kosza?ka, dopo studi di sociologia nella sua città, si è diplomato a Katowice nell'ambito del dipartimento dell'Università della Slesia intitolato a Kzysztof Kie?lowski, ma il suo modo di fare cinema con la realtà, servendosi di una mdp «sempre attiva e partecipe dell'azione», artefice di un punto di vista «mai “neutro” o dissimulato» (ancora Grosoli), si discosta considerevolmente da quello, di osservazione, del celebrato autore di Szpital (t.l.: L'ospedale, 1976), per non fare che un esempio della sua copiosa produzione in questo ambito.

Ispirato a un fatto di cronaca, Il Ragno Rosso è formalmente un crime movie, ma l'autore ha dichiarato che non gli interessava fare un film di genere, del quale rinuncia agli allettamenti spettacolari e alla stessa sintassi. L'azione, collocata nel 1967, si svolge a Cracovia, la più bella tra le città polacche, ma la mdp non si addentra mai nei suoi luoghi deputati come la Piazza del Mercato e solo in una delle prime inquadrature possiamo cogliere in lontananza le cuspidi delle sue chiese. L'esistenza del protagonista si trascina nel grigiore di strade fangose e maleodoranti, di tristi appartamenti piccoloborghesi, di edifici pubblici che da tempo non hanno conosciuto manutenzione. Anche quello che viene chiamato lago, in cui l'assassino, come l'infelice Wojzeck di Büchner, dice di avere gettato le armi dei delitti, non è altro che una cava in disuso riempitasi d'acqua.

La stessa patina di una fotografia in cui il colore è smangiato e la tonalità dominante appare uno sgradevole verdastro caratterizza anche gli umani, le cui psicologie e i cui percorsi esistenziali sono affidati all'ellissi e alla distanza. Kosza?ka si arresta quasi sempre sulla soglia dell'allusione, delegando allo spettatore il compito di riempire i vuoti del racconto. Certo, si sa che Karol ha una madre ancora appetibile, tanto da far intuire probabili contorsioni edipiche, che il suo è un padre mediocre e anaffettivo che colleziona francobolli e vorrebbe il figlio avviato alla sua stessa professione di medico. Che il suo alter ego criminale fa di mestiere il veterinario, dunque ha una certa consuetudine con la chirurgìa e il sangue, che indossa il parrucchino, classico sintomo nevrotico che come tale dovrebbe nascondere e invece rivela, che realizza un orgasmo simbolico l'unica volta che lo vediamo uccidere una delle sue vittime e che ha una moglie che sa e lo copre. Ma il regista non si dilunga mai in immagini o dialoghi esplicativi anche quando mette in scena il crescendo freddamente emotivo attraverso il quale Karol arriva a essere dapprima complementare rispetto al suo sosia, poi a farsi carico più o meno fittiziamente delle sue imprese criminali e del suo destino di morte. Nemmeno tanto sottotraccia, possiamo tuttavia enucleare due fili conduttori nel Ragno rosso.

Il primo è rappresentato dalla vertigine, e dalla possibilità a essa attribuita di dare un senso a una vita mediocre. Lo avvertiamo già nelle immagini di apertura, quando Karol si tuffa dalla piattaforma e arriva a toccare con le mani il fondo della piscina. Ma siamo ancora nell'ambito di una pratica sportiva, nella quale il ragazzo è un campione, sia pure locale, e per cui viene riconosciuto e riceve le congratulazioni per strada. Il luna park nei pressi del quale scoprirà la prima vittima del serial killer ce lo mostra alle prese con altre attività che, da protagonista o da spettatore, gli fanno aumentare progressivamente l'adrenalina, come il tiro a segno e la giostra volante. Subito dopo, ecco “il ragazzo del muro della morte” – o “l'astronauta della motocicletta”, come enfaticamente lo definisce l'imbonitore – che termina la sua esibizione girando vorticosamente in tondo con gli occhi bendati. Anche la conquista della fotografa Danka, che scatta nel momento in cui picchia selvaggiamente un suo corteggiatore, cioè mediante la più brutale e primigenia tra le tecniche di seduzione, sembra far parte di questo crescendo glacialmente emotivo. Più evidente, anche se delegato a una voce gracchiata dalla radio, il riferimento all' alpinismo come sfida continua ai propri limiti. Se nello Zanussi d'antan questo sport, piuttosto diffuso in Polonia, viene ad assumere un significato spirituale e, con qualche cautela a causa della censura durante il regime, religioso, per Karol significa la ricerca di emozioni estreme (1).

Strettamente connesso al primo, l'altro percorso del protagonista, e di riflesso del suo doppio, è rappresentato dalla consacrazione mediatica. Dapprima Karol agisce passivamente raccogliendo i ritagli di giornale sul suo “idolo”, poi, diventatone tacito collaboratore, porta la simbiosi fino all'identificazione, autoaccusandosi dei crimini («Non ho rimpianti, lo rifarei», dice) e ricostruendone le modalità davanti agli agenti e a una troupe cinematografica, tanto da diventare una sorta di divo che sorride constatando il seguito che ha tra la gente e al quale i poliziotti stessi finiscono per chiedere l'autografo. Il film si conclude undici anni dopo, con la visita del veterinario assassino a una galleria di arte moderna in cui è esposto un enorme dipinto che ritrae Karol. Se il 1967 era l'anno del concerto degli Stones a Varsavia di cui vediamo alcune immagini in televisione, prima crepa per la penetrazione dell'Occidente capitalistico, il 1978 è la data dell'ascesa di Wojtyla al soglio pontificio, dunque, visto col senno di poi, l'inizio della fine del regime comunista, in Polonia e in tutta l'Europa dell'Est.

Kosza?ka però nega che la politica entri in Il Ragno Rosso se non in maniera indiretta. Sarebbe d'altronde incongruo per un'opera sempre in equilibrio sulla soglia del non detto. Il regime è tuttavia palpabile nella violenza che deve subire Karol da parte del poliziotto al quale si è costituito, o nei comunicati radiofonici che esaltano la felice conclusione delle indagini grazie alla collaborazione tra polizia, Comitato del Partito e autorità centrale. Ma sono soprattutto i luoghi di una Cracovia sordida, percorsa da Warszawa, Trabant e Moskvitch male in arnese, i suoi tristi locali di divertimento, le sale ospedaliere e gli ambulatori dalle attrezzature sommarie, gli abiti stazzonati dei protagonisti, gli stessi cibi poco invitanti di cui essi si nutrono, a esprimere un giudizio su un contesto sociale in sfacelo.

A prescindere come vuole il suo autore, Il Ragno Rosso è un film tesissimo, le cui atmosfere evocano quelle di un capolavoro teorico come L'occhio che uccide di Michael Powell, in cui lo sguardo etico di Kosza?ka trasferisce alcuni temi del suo cinema di non fiction come l'inferno familiare e l'ossessione della morte (2), consegnando allo spettatore brandelli di verità sufficientemente ambigui per stimolarne la partecipazione lasciandolo libero nelle conclusioni.

 

 

(1) All'alpinismo come sport estremo ma anche come creazione in qualche modo artistica Kosza?ka ha dedicato il mediometraggio Deklaracja nie?miertelno?ci (t.l.: Dichiarazione di immortalità, 2010), intenso ritratto di Piotr “Mad” Korczak, uno dei più famosi scalatori polacchi.

(2) Ci riferiamo rispettivamente alla trilogia familiare autobiografica iniziata da Takiego pi?knego syna urodzi?am (t.l.: Che bravo ragazzo ho partorito, 1999) e conclusa da Ucieknijmy od niej (t.l.: Scappiamo via da lei, 2010) e le riflessioni sulla morte di ?mier? z ludzk? twarz? (t.l.: La morte dal volto umano, 2006) e Istnienie (t.l.: Esistenza, 2007).