CINEFORUM / 563

Print the legend. Mitologia e mitomania nella costruzione della Storia

Cannes, maggio 2016. Sulla Croisette viene presentato Neruda del regista prodigio Pablo Larraín: il nome del celebre poeta troneggia al centro della locandina, ma la pellicola si rivela essere qualcosa di molto diverso dal classico biopic. Oggetto filmico formidabilmente ricco, opulento e debordante, Neruda trova spazio nella filmografia del suo giovane autore quale ennesimo tassello del grande mosaico sulla Storia del Cile che Larraín sta tracciando ormai da dieci anni, pellicola dopo pellicola, con ammirevole coerenza. Naturalmente Neruda c’è, uno e trino: marito esuberante, militante indomito e uomo di lettere. Ma il regista ne demistifica fin da subito la figura, servendosene per investigare, ancora una volta, le perversioni e le storture del potere nel proprio Paese.

Venezia, settembre 2016. A pochi mesi di distanza, Larraín torna alla ribalta dei grandi festival internazionali con Jackie, prima fatica lontano dal nativo Cile. Analogamente, il volto e il nome della protagonista si stagliano sul manifesto scarlatto, ma ancora una volta il regista si diverte a disattendere le aspettative, stravolgendo le regole del genere biografico. Jackie è, in effetti, la cronaca delle ore e dei giorni successivi all’assassinio di John F. Kennedy. Eppure, allo stesso tempo, è qualcosa di molto più sfuggente e complesso.

Larraín esplicita le proprie intenzioni fin dalla prima scena: incarnato candido e messa in piega impeccabile, l’ormai ex First Lady degli Stati Uniti si appresta a ricevere il giornalista incaricato di intervistarla per conto della rivista «Life». Prima di accoglierlo nell’elegante dimora dove si è ritirata, però, si premura di ricordargli con fermezza che revisionerà ogni parola, editerà ogni sillaba, convaliderà ogni pausa della loro conversazione, «in case I don’t say exactly what I mean». Il giornalista è ancora sull’uscio – lo spettatore con lui. Nicchia e si schernisce, ma lo sguardo impenetrabile e fiero della sua illustra ospite non concede esitazioni né margini di negoziazione: solo dopo averle riconosciuto la possibilità di raccontare la sua versione dei fatti, l’uomo è finalmente ammesso all’interno della grande casa avvolta nell’abbacinante luce autunnale del Massachusetts. Le regole del gioco sono state stabilite: l’intervista può cominciare, la Jackie larraíniana può finalmente andare in scena.

In questo breve scambio, che ha il sapore programmatico di una dichiarazione d’intenti, è contenuto tutto il senso del film: Larraín non ha mire pedagogiche né pretese storicistiche, il suo cinema non è mai didascalico né mosso da ambizioni meramente illustrative. Al contrario, il cineasta cileno piega la Storia alle proprie esigenze narrative, la tradisce e la corregge, fino a farne mero materiale drammaturgico, per denunciarne in ultima istanza la dimensione irrimediabilmente finzionale e spettacolare. Larraín si insinua tra date, personaggi e avvenimenti come un agente morale, secondo la definizione di Susan Sontag, che solo attraverso il potere immaginifico dell’invenzione può spingersi a configurare la (una) verità storica.

Per nulla intimidito dalla statura iconica dei personaggi cui si approccia, il regista plasma i fatti secondo le necessità di una narrazione ancora tutta da costruire: in definitiva, fa della Storia un racconto personale, e dunque quanto mai ambiguo e parziale, riducendo la simultaneità del tutto a una parabola individuale. In questo senso, la vedova Kennedy, donna e icona, non fa eccezione. Jackie si configura infatti come un film sulla Storia ma non storico, un racconto di impronta quasi mitologica in cui verità e vanità si rincorrono e si confondono, alternandosi senza soluzione di continuità per affermare la fugace inafferrabilità del reale.

Già in No – I giorni dell’arcobaleno (No, 2012), ricostruendo la formidabile campagna pubblicitaria che nel 1988 portò alla fine del regime Pinochet, Larraín aveva proposto una riflessione disincantata sui meccanismi della comunicazione di massa, sulle perversioni del rapporto tra media e politica. Jackie aggiunge ora un nuovo capitolo a questa riflessione, mettendo in scena quanto «la narrazione ha un ruolo decisivo nella costituzione del Sé e delle sue protesi esterne», come scrive Michele Cometa nel suo Perché le storie aiutano a vivere.

Jackie stessa, infatti, con estrema consapevolezza e lucidità agisce come agente morale del proprio ritratto e della propria vicenda, pubblica e privata. First Lady di ammirevole acume e lungimiranza, Jackie sa che un Popolo ha bisogno di una tradizione in cui riconoscersi, di modelli nei quali cercare una guida e una fonte d’ispirazione, per rispecchiarsi infine nel proprio passato. Soprattutto, Jackie conosce l’importanza dei simboli e degli oggetti che, antidoto alla supremazia del contingente, sopravvivono agli uomini e finiscono per incarnarne ideali e aspirazioni agli occhi delle generazioni future. Non a caso, già nelle riprese televisive del famigerato Tour of the White House (1962), la First Lady è mostrata spesso nell’intento di elogiare l’unicità di una rara porcellana statunitense, magnificare l’importanza storica del letto di Lincoln, esaltare la qualità del pianoforte disegnato da Roosevelt. Come già Rossellini in La presa del potere da parte di Luigi XIV (La prise de pouvoir par Louis XIV, 1966), dunque, Larraín mette in scena il potere attraverso l’ostentazione dei suoi orpelli, un’accumulazione di quadri, mobili e suppellettili che per Jackie costituiscono la rappresentazione incarnata dell’eredità del marito, le tracce simbolicamente concrete del suo personalissimo regno di Camelot.

Per questo, fin dalle ore più oscure e crudeli di Dallas, Jackie si mostra rapacemente risoluta nel proteggere il corpo, l’immagine e il nome del marito, sulla cui eredità teme possa pesare la minaccia dell’oblio. Investita di un compito solenne e liturgico, Jackie interpreta se stessa in una obnubilante commedia umana che non concede interruzioni: Jackie la martire santa, con il volto ancora insozzato di sangue; Jackie il capo di Stato, impegnata a trattare con Johnson e il suo gabinetto; Jackie la vedova stoica, con le mani strette in quelle dei figlioletti; Jackie la madre della Nazione, che sfila caparbia in testa al corteo funebre.

Più cavalli, più lacrime, più fotografi. Il suo sfogo davanti a chi le rimprovera l’effimera magniloquenza dei funerali del marito non è frutto del rancore di una moglie ferita, bensì della lucidità disperata di una regina che ha ormai perso trono e corona, di una diva bruciata che deve rinunciare al proprio status. In questo senso, Jackie potrebbe essere l’ultima regina di Francia, reclusa in una gabbia dorata che si sta sgretolando sotto il suo sguardo attonito, sorpresa a vagare impotente e inebetita tra i corridoi del suo palazzo cambiandosi abiti e gioielli come la Maria Antonietta coppoliana. Una Norma Desmond pateticamente sul viale del tramonto, incancrenita nell’ostinata recita di un ruolo che ormai non le appartiene più. La sua ossessione per il ricordo del marito, gli assillanti riferimenti a Lincoln, la magnificenza spettacolare del funerale, la fantasia spezzata di Camelot assumono così i contorni di un sogno vanesio di una piccola mitomane che non sa più distinguere tra verità e performance e che, infine, non può evitare di ammettere al proprio confessore: «It wasn’t for Jack, it was for me».

Il racconto pubblico e quello privato confliggono, entrano in collisione, con le precisissime distorsioni sonore di Mica Levi a suggerire un elemento di inquietudine e tensione sottesa che incrina inevitabilmente l’idillio del quadro perfetto. Ma prontamente, di fronte all’intervistatore, la Jackie composta e impenetrabile smentisce e sconfessa la Jackie smarrita delle notti solitarie alla Casa Bianca, quella affranta tra le braccia dell’assistente Nancy, quella furente di rabbia contro Bobby. E quando afferma lapidaria «I don’t smoke» mentre tira una boccata dall’ennesima sigaretta, è definitivamente rientrata nel ruolo prefisso.

Verso l’epilogo, Larraín mostra la sua indomita protagonista, matita alla mano, accovacciata sul blocco degli appunti del giornalista intenta a correggere ogni parola, come aveva promesso. In un mondo in cui non esistono fatti ma solo narrazioni, il mito può dirsi finalmente stabilito e Larraín ce lo mostra in tutto il suo accattivante, irresistibile, fulgido potenziale iconografico. Mentre Richard Burton intona laconicamente il ritornello del musical Camelot, Jackie e John danzano divertiti al centro di una corte di privilegio e bellezza che non esiste più, e forse non è mai esistita, ma il cui ricordo è ormai consegnato indelebile all’immortalità: «Don't let it be forgot / That once there was a spot / For one brief shining moment that was known / As Camelot».

Jackie mette così in pratica la lezione già teorizzata dal fordiano L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962: «When the legend becomes fact, print the legend». La verità, come sempre, è destinata a rimanere un riflesso inafferrabile e inaccessibile, perfino per il giornalista, che non può far altro che allontanarsi inappagato e attonito – e lo spettatore con lui.