CINEFORUM / 567

Torna a casa, Gojira

La storia di Godzilla è un mito. Può cambiare il medium attraverso cui essa è trasmessa, la cultura di origine del narratore o l’anno di ambientazione con relativi eventi scatenanti, ma l'insegnamento morale che ne è alla base rimane sempre lo stesso: il mostro scaturito dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki o dai test americani compiuti nell’atollo di Bikini, quello che si nutre delle scorie rilasciate dai vari disastri atomici che si sono susseguiti fino a oggi, è il nostro lato più oscuro e terribile, affascinante nella sua forza distruttrice, orribile nella mancanza di coscienza (lacuna, questa, che lo porta a mietere vittime in maniera indistinta), e con esso dobbiamo per forza convivere.

Nato in Giappone negli anni Cinquanta come evidente metafora della bomba a fissione nucleare e ispirato dalla figura e dal successo della prima creatura gigante della storia del cinema, l'hollywoodiano King Kong, a differenza di quello, Gojira (è il suo nome originale) ha rigettato sempre ogni tentazione di antropomorfismo, permanendo allegoria della feroce distruttività umana. Persino Hanna e Barbera, nel cartoon realizzato negli anni Settanta in collaborazione con la Toho, casa madre del personaggio, nonostante che esso fosse già stato protagonista di film incentrati su lotte con mostri più feroci e devastanti che lo avevano reso un eroe per ragazzini, non poterono concepirlo consapevole benefattore. Per questo, visto il loro rivolgersi a spettatori estremamente giovani, furono costretti a inventarsi il personaggio di un nipote goffo e dolce, quasi disneyano, Goodzoky, tramite fra la gente e il mostro, che permise a quest'ultimo di mantenere inalterato il suo fascino selvaggio e ancestrale e al contempo di palesarsi difensore dell’umanità.

La tragicità della prima storia che vide Gojira protagonista – diretta nel 1954 da Ishiro Honda, dove a doverlo fronteggiare erano anche sopravvissuti di Nagasaki e vedove della guerra – non è più ritornata nei circa trenta film (un record) che a essa sono seguiti o che ne hanno costituito un rilancio, neppure nel ciclo iniziato con Il ritorno di Godzilla di Koji Hashimoto, realizzato trent’anni più tardi proprio con l’idea di far sì che la popolazione nipponica non si dimenticasse di quello che era successo. Piuttosto, l’opera di Honda ha inaugurato un genere nuovo tipicamente giapponese – il film kaij?, il film dei mostri giganti – da cui è scaturita buona parte dell'immaginario dei “figli della bomba” del Paese, che non si è espresso solo nei lungometraggi e nelle altre serie televisive similari della Toho, quali, ad esempio, i celebri Ultraman (1966) e Megaloman (1979), ma anche nei manga e negli anime che dagli anni Settanta a oggi hanno visto protagonisti decine e decine di robot giganti, mecha come Mazinga Z, Goldrake, Jeeg Robot, i cui dardi fotonici e altre armi potentissime erano tutte figlie della forza nucleare e le dimensioni e la distruttività delle quali richiamavano quella del mostro mastodontico dalla pelle di rettile e le sembianze da dinosauro. Anch’egli, del resto, è dotato di un raggio atomico che, fuoriuscendo dalla bocca, costituisce da sempre la sua risorsa principale per infliggere il colpo mortale nei combattimenti.

È chiaro ora che, per quanto si voglia provare, comprendere appieno tale immaginario, questo modo di pensare di continuo a un passato tanto drammatico e rielaborarlo artisticamente e fantasticamente senza sosta, è qualcosa che non può non risultare lacunoso a chi non abbia una vicinanza profonda con l’identità nipponica. In tal senso, Shin Godzilla di Hideaki Anno e Shinji Higuchi può risultare, tra tutti i film con protagonista il mastodonte, uno dei più distanti e disarmanti per un pubblico occidentale. Non solo perché il nostro beniamino in esso appare pochissimo, ma soprattutto perché l’intenzione degli autori pare essere, più che il mostrare distruzione e dramma, dipingere una vignetta fortemente satirica della politica giapponese, della sua inefficienza, del suo non poter fare a meno di ricorrere all’aiuto dell’amato-odiato alleato statunitense per uscire dalla propria costante impasse.

Fa sorridere, certo, vedere con quale imperizia e inutili formalità sono prese le decisioni al vertice in merito a come contrastare la creatura che è emersa dalle acque ed è avanzata fino al cuore della capitale, anche perché lo stile degli autori, il modo attraverso cui connotano i vari personaggi, è quello caricaturale delle anime, dal cui mondo entrambi provengono e dove spesso hanno collaborato. Ma, considerato quanto detto inizialmente, non si può non percepire il dramma dietro l’ilarità, anche perché, pur apparendo per appena una quindicina di minuti in due ore, quando Gojira si manifesta, porta davvero devastazione e distruzione.

Anno – che, tra gli altri, è autore del rivoluzionario mecha Neon Genesis Evangelion nonché della sceneggiatura del film – e Higuchi – che prima di diventare autore indipendente ha collaborato a varie produzioni del primo e si è occupato proprio degli effetti speciali di film kaij? – stravolgono lo stile del genere privandolo dei suoi connotati più ludici, realizzando, cioè, un mostro gigante per la prima volta interamente digitale anziché affidarsi all’animazione in passo uno o facendolo interpretare, come è sempre stato solito, da un attore in costume costretto a muoversi in set minimi; inoltre, affidano a un disegno iperrealista la descrizione di alcuni momenti altamente suggestivi (come quando Gojira attraverso i suoi raggi radioattivi distrugge Tokyo) creando un regime misto dove difficilmente si coglie il passaggio da una modalità realizzativa all’altra e dove l’impiego della CGI permette ad alcune inquadrature e sequenze di acquisire connotati molto pittorici. Il primo apparire del mostro, ad esempio, che avanza sulla città in una forma non ancora pienamente sviluppata travolgendo ogni cosa, richiama palesemente lo stile di Hayao Miyazaki, con il quale Anno ha per un certo tempo lavorato lasciandosi dichiaratamente ispirare, offrendo allo spettatore momenti di puro stupore visivo.

A rendere possibile la messa in produzione di questo film – unico tra quelli prodotti in Giappone a ripartire completamente da zero senza tenere conto del Godzilla di Honda (omaggiato solo con la ripresa della colonna sonora d’epoca) – è stato il successo della storia portata sullo schermo da Gareth Evans nel 2014, anch’essa visivamente molto potente, dove lo stile kaij? era stato riplasmato e omaggiato ampiamente, tenendo però conto della lezione hollywoodiana del film di mostri della modernità per eccellenza, Jurassic Park, e dove si era assistito a una forte deresponsabilizzazione in merito all’impiego dell’atomica dal momento che la genesi del gigante devastatore non aveva colpe umane, perché esso – vi si spiegava – sin dalla preistoria si è nutrito delle radiazioni emesse dal nucleo della Terra che ne hanno fatto un essere pressoché immortale. Addirittura, i test nucleari compiuti dall’esercito statunitense e da quello russo nel dopoguerra sarebbero serviti solo a stanarlo e ucciderlo.

Shin Godzilla, da questo punto di vista, non cancella le responsabilità, ma di certo nella sua satira non si evince quell’antiamericanismo di cui sono stati tacciati alcuni film della serie. Piuttosto, invece, sono percepibili una certa malinconia dietro il sorriso e un lirismo profondo nella devastazione che porta con sé il mostro che si possono tradurre nell’attaccamento a un Paese che – lo si sa – non è quello che potrebbe essere. Vessato senza sosta da terremoti che hanno causato tsunami e disastri nucleari (è costantemente percepibile il fantasma di Fukushima), il suo stato è quello di un dopoguerra continuo, una condizione di perenne precarietà e instabilità che dalla fine del conflitto non si è esaurita mai. Come l’andare e il ritornare di Gojira, che non potrà mai morire se l’uomo non riuscirà a far morire prima la parte più distruttiva di sé.