CINEFORUM / 570

Gli asteroidi

Ci sono due modi di considerare Gli asteroidi, il primo lungometraggio di finzione di Germano Maccioni, presentato in concorso a Locarno. Si può pensare: ancora queste storie di formazione di adolescenti perduti, queste storie di provincia, queste storie di delinquenza da strapazzo e di orchi che coinvolgono i bambini nel male. Ma si può pensare anche: che esordio strepitoso… un po’ confuso forse, nel senso che affastella elementi senza gestire perfettamente la narrazione nella sua complessità, per cui l’impressione è quella di “tanta roba”, forse troppa; però interessante e ricco. Io, l’avrete capito, sto con i secondi e pur riconoscendo le imperfezioni dell’opera ne riconosco anche la ricchezza e la complessità, che sono anche la ricchezza di una persona che, dalla recitazione e dal teatro, è passata al cinema e alla regia, prima di documentari (ricordiamo il notevole Fedele alla linea – Giovanni Lindo Ferretti, 2013) poi, appunto, adesso, di film di finzione.

La provincia, si diceva; meglio ancora la bassa emiliana, la pianura che ieri era un ribollire di imprese di cui oggi restano capannoni dismessi e cadenti, in cui fino a due decenni fa il partito e il sindacato contavano qualcosa, e contava qualcosa anche, nei paesi, il prete. Maccioni ci presenta questo territorio in crisi e come aveva fatto, per il Veneto, Alessandro Rossetto con Piccola patria, mostra le conseguenze di questa crisi in due generazioni, quella dei “padri” che soccombono e si ammazzano o finiscono per bersi e giocarsi lo stipendio, o cadono in brutti giri quando non li gestiscono, e quella dei “figli” spaesati, smarriti, senza valori o, meglio, senza quei valori ma con la fatica di costruirsene di nuovi, e per questo vittime designate di chi vuole approfittare di loro. Una cosa hanno chiara, non vogliono finire come i loro padri, ingabbiati in una fabbrica o sommersi dai debiti. Ma non vogliono nemmeno lasciare la loro terra. Solo uno, forse, ha le idee più chiare degli altri (cita Kant e parla di Copernico e della “ferita narcisistica” inferta all’uomo dalla sua teoria, guarda le stelle e sogna un futuro diverso, che esprime disegnando), ma è considerato un pazzo ed è quello che farà la fine peggiore. Gli altri due, che sono i veri protagonisti, si riscattano, uno nel lavoro l’altro concludendo, con Montale, un percorso di studi rallentato dagli eventi; ma la desolazione di una terra che prima era ricca anche di valori rimane, e all’opera va il merito di averla descritta con efficacia.

Coprodotto dall’Emilia-Romagna Film Commission, il film consta di una troupe emiliano-romagnola, dai musicisti agli attori (accanto a “vecchi” come Chiara Caselli tornata in Emilia dopo vent’anni, i giovani sono ragazzi selezionati in workshop di recitazione realizzati in istituti superiori di Bologna), oltre ad essere appunto girato nei dintorni di Ozzano e anche, riprendendo il precedente antonioniano, nella stazione radioastronomica di Medicina, con la croce del nord e con l’enorme antenna parabolica che scatena le fantasie del personaggio sopra citato. Il che ci riconduce al titolo, Gli asteroidi: questo personaggio, soprannominato Cosmic, è convinto che il mondo stia per finire a causa di un asteroide che impatterà la terra a breve e al di là dei possibili riferimenti (primo tra tutti, Melancholia), Maccioni ha voluto usare questo titolo a indicare la precarietà dell’esistenza umana, il nostro essere sospesi girando attorno a qualcosa senza un perché, ma anche la possibilità che abbiamo di prendere, a volte, delle orbite impreviste magari rovinose, come accade ai protagonisti del film.

L’Emilia-Romagna comunque è raccontata tutta: le balere con l’immancabile liscio, le cascine e le piste dei go-kart per citare Veloce come il vento, i baretti con i soliti bicchieri e le solite persone e magari il tiro a segno, i capannoni industriali; con una fotografia in stile Ghirri che rende tanto lo squallore e la noia del giorno, quanto la magnificenza della notte. Ci sono i ricordi del regista, che in quelle terre è cresciuto, e l’amore per quei luoghi si sente tutto; ci sono figure femminili positive, a fronte di un maschile in difficoltà; c’è tristezza e c’è speranza; ci sono momenti forti come quello, splendido, della finta confessione di Pietro; e ci sono la filosofia e la scienza, a partire dal Maitri Upanishad in apertura: «Diventiamo ciò che pensiamo, questo è l’eterno mistero».