CINEFORUM / 571

Amori che non sanno stare al mondo

Amori che non sanno stare al mondo. Ed è davvero così. Ci sono amori solidi, forti, che nascono per resistere nel tempo e per dare frutti concreti, per stare su questa terra. E ci sono amori altrettanto forti ma di una forza meno concreta, la forza dei sentimenti, dell’ideale, dell’assoluto che di questa terra non è… e che finiscono per disintegrarsi perché erano eccessivi, assoluti appunto: troppo vivi troppo importanti troppo perfetti oppure anche imperfetti, ma veri. E a volte sono proprio le cose più vere quelle che finiscono prima; perché da esse è bandita ogni ipocrisia e non si usano bassezze e compromessi, meglio troncare che vivere in un tono più basso dell’assoluto, dell’amore assoluto. Poi c’è sempre, è chiaro, uno dei due che è più innamorato dell’altro e che questo distacco non lo accetta, non lo comprende… l’assolutezza era oltre ogni possibilità di fine… e c’è chi invece non ce la fa a vivere sempre al massimo e preferisce ripiegare su un amore tranquillo e sereno, anche se giocoforza più blando. In genere donna e uomo. E se il secondo si rifà una vita, senza smettere magari nel profondo di amare il primo ma senza volerlo o poterlo ammettere, questo non tollera vie di mezzo e preferisce restare solo; anche dopo aver sperimentato altre situazioni. E quando dopo molto tempo la malattia d’amore si è in qualche modo sedata se non spenta, perché spegnersi veramente non potrà mai, questa persona potrà incontrare nuovamente l’amato/a e accettare, finalmente, che tutto ha una fine come ha un inizio, e potrà rendersi conto che il più forte è lei, che la sofferenza estrema le ha consentito di distaccarsi e di rendersi autonoma, mentre quello che è ancora legato è lui, è l’altro. Perché è sceso a compromessi con se stesso.

È quello che accade nell’ultimo film di Francesca Comencini, Amori che non sanno stare al mondo appunto, passato a Locarno e a Torino e scritto con Francesca Manieri e Laura Paolucci a partire dal suo romanzo dallo stesso titolo, con chiari riferimenti a Come eravamo e a Io e Annie. Però per omaggiare i suoi autori del cuore e in primis Terrence Malick, la Comencini, che ha studiato filosofia e ha girato dei film densi e splendidamente complessi anche quando si è ispirata alla letteratura (Le parole di mio padre, 2001), firma un film pieno (di afflato, sentimento, rabbia, nostalgia, dolore, amore, amicizia, solidarietà, passione, dubbi e paure ma anche ironia e autoironia) e frammentato, slabbrato, scomposto. Barthesiano. Dapprima infatti l’opera colpisce e sconcerta, e sembra che non sappia dove andare a parare: alle scene buffe si alternano quelle cariche di passione, all’ironia si accosta la tragedia. Ma questo apparente limite è in realtà il pregio del film; il pregio di un’opera che non vuole essere un trattato sull’amore ma vuole mostrarcelo nella vivezza della sua forza, passione e dolore. Gioia della conquista e sentimento della perdita. Battaglia e resa. Ecco quindi che vediamo Claudia arresa, assopita all’inizio, Claudia subito dopo disperata e preda di un’ossessione d’amore che non le impedisce di stare nel mondo e di guardare gli altri, anche se non riesce a non monopolizzare i discorsi; Claudia battagliera in facoltà, Claudia folgorata da Flavio davanti a un piatto di spaghetti e poi con lui in campagna che gli chiede un figlio in nome di quell’amore che è appena cominciato, e che è già assoluto. E poi Claudia che prende un bus perché è delusa, lui non la ama quanto lo ama lei; ma poi torna e la cosa va avanti, lui è “preso” ma non vuole dimostrarlo, ce la fa e non ce la fa e alla fine cede perché è troppo, è troppa la gioia ma è troppa anche la pressione. Lei è gelosa e irritante, totalizzante. Lo perseguita e lui, giocoforza, scappa. Passato e presente si mescolano. Il passato raccontato, inframezzato ad un presente in cui bisogna raccogliere i cocci, e andare avanti. Passa il tempo, si fanno altre esperienze. E alla fine, ma davvero alla fine, si riesce ad andare oltre. Che vuol dire potersi vedere e capire che si è oltre, ormai; mentre l’altro forse no.

Lucia Mascino è perfetta nel ruolo di Claudia, anzi è Claudia: nei suoi slanci, nei suoi eccessi, nei suoi comportamenti sconvenienti e a volte folli. Riempie lo schermo del suo anelito di vita e del suo rigore attoriale, come in nessun altro film. E la Comencini trova nel rapporto con gli attori la sua cifra autoriale, e nel turbinio dei sentimenti variamente coniugati la sua chiave per questo film.