CINEFORUM / 571

Tutti hanno le loro ragioni

Due motivi tematici ritornano con frequenza nei lungometraggi diretti da Ziad Doueiri: la convivenza problematica tra gruppi etnici e religiosi differenti e il bisogno di fare i conti con la propria memoria, di comprendere il proprio passato e di ridefinire le proprie relazioni con gli altri per trovare un nuovo equilibrio esistenziale. Nei suoi primi due lavori – ambientati, rispettivamente nel Libano del 1975 (West Beyrouth, 1998, di ispirazione autobiografica) e nei quartieri arabi di Marsiglia (Lila dice, Lila dit ça, 2004) – aveva sviluppato questi due motivi sotto forma di racconto di “formazione” cogliendo i suoi protagonisti nel momento decisivo dell’adolescenza o dell’ingresso nell’età adulta.

Negli ultimi due film ha invece messo in scena quelli che possiamo definire episodi “emblematici”, raccontando una situazione “micro” – riguardante cioè un ristretto numero di individui, coinvolti, in primo luogo, nella loro dimensione privata e che si svolge in un breve lasso di tempo – nella quale si trova rispecchiato e condensato un conflitto “macro” che riguarda invece interi popoli e che affonda le sue radici nei tempi lunghi della Storia. Perché, attraverso questa condensazione, la storia “micro” renda il più possibile evidenti le questioni problematiche che i film intendono esplorare, Doueiri, assieme alla sua abituale co-sceneggiatrice Joëlle Touma, è disposto anche ad alcune forzature a scopo “dimostrativo”. La situazione di partenza, ispirata a un romanzo di Yasmina Khadra, di The Attack (un chirurgo arabo ai vertici della professione a Tel Aviv che ha una moglie la quale, a sua insaputa, svolge attività con gruppi terroristi e compie un attentato kamikaze) poteva apparire piuttosto improbabile ma serviva appunto a rendere i problemi e i dilemmi dell’identità degli arabi nella società israeliana particolarmente evidenti (il protagonista si trova a operare le vittime dell’attentato compiuto dalla moglie). in L’insulto l’inarrestabile escalation di ritorsioni che prende avvio da un fatto minuscolo sembrerebbe uno spunto adatto, più che a descrivere in maniera plausibile conflitti storicamente reali, a essere trattato con la stilizzazione di un corto d’animazione (Piccolo, 1959, di Dušan Vukoti? o Neighbours, 1952, di Norman McLaren) che voglia rappresentare in forma iperbolica pulsioni profonde dell’essere umano.

Nello sviluppare questi punti di partenza, che amplificano ed esasperano la realtà, l’approccio di Doueiri mostra poi diversi pregi e qualche debolezza. Si potrebbe dire che all’origine de L’insulto si possa ritrovare la famosa battuta de La regle du jeu – «Quel che è più terribile, su questa terra, è che tutti hanno le loro ragioni» (o, il che è la stessa cosa, i loro torti) (1). La qualità migliore di L’insulto mi pare stia nella capacità di costruire la storia intorno a personaggi che non sono convenzionalmente “simpatici” – sono, anzi, personaggi che hanno tratti (la convinzione di essere dalla parte del giusto li rende incapaci di tener conto delle persone che gli stanno intorno e spinge l’ostinazione sino al fanatismo) che li possono anche rendere sgradevoli. Per certi versi, anche il film precedente prendeva le distanze dal suo protagonista, personaggio che – volutamente – era costruito in modo da non attirare la piena “simpatia” dello spettatore. Sembrerebbe, dunque, che questa costruzione dei personaggi sia un tratto costitutivo del metodo di scrittura dei due sceneggiatori, i quali, in questo modo, riescono a mantenere aperto lo sviluppo della vicenda e viva la tensione che la percorre. Nell’assistere al processo de L’insulto non si è infatti guidati da aspettative e da “speranze” predefinite.

In certi passaggi della vicenda sembrerebbe si possa leggere una contrapposizione tra la politica e le persone comuni, con l’attribuzione alla politica di tutte le colpe dei conflitti passati e (col contributo del sistema dei media) degli strascichi attuali. È un discorso che, in contesti diversi, può trovare consensi, specialmente dopo gravi conflitti. Nell’Italia appena uscita dalla guerra civile, in un libro che è stato considerato precursore del qualunquismo, Indro Montanelli scriveva che «la politica la gente dabbene non la fa» (2) perché – questo era il suo ragionamento – la politica fomenta divisioni che altrimenti, tra gli uomini qualunque non esisterebbero. Quando, in L’insulto, si vede Toni infiammarsi ad un comizio o riascoltare alla tv le registrazioni dei discorsi di Gemayel (allo stesso modo in cui in The Attack un tassista di Nablus riascoltava una cassetta con i discorsi di un leader religioso) è chiaro che la distanza tra il punto di vista del personaggio e quello del film (3) porta ad evidenziare le responsabilità che hanno i leader nel politicizzare le identità, esasperandole e trasformandole in basi di un conflitto per il quale non possono esistere mediazioni e compromessi. Però se ci sono politici che accendono le divisioni, ce ne sono anche altri che vediamo rivolgersi ai due contendenti con parole di ragionevolezza che rimangono inascoltate. Ognuno – politici o comuni cittadini – è insomma responsabile delle scelte e delle azioni che compie (i politici possono fare discorsi incendiari fintanto che c’è qualcuno, come nella scena iniziale, che si esalta ascoltandoli e li applaude).

I protagonisti di L’insulto hanno vissuto tragedie molto più grandi di loro ma non possono autoassolversi, dandone semplicemente la colpa ad altri (che è quel che fanno all’inizio) e rimanendo fermi sulle proprie posizioni di rivendicazione dei torti subiti. Come il protagonista di The Attack, nel momento in cui scopriva che la moglie era una terrorista, doveva interrogarsi non solo sull’identità della donna con cui condivideva la vita, ma doveva ripensare anche alle proprie scelte (doveva cioè guardarsi dal punto di vista di lei e rimettersi in discussione), così anche i due litiganti di L’insulto devono riuscire a guardarsi dal punto di vista dell’altro. L’auspicio di L’insulto non è dunque un generico invito a riconciliarsi mettendo da parte la radicalizzazione, cercando magari di dimenticare quel che è accaduto. Doueiri afferma, al contrario, la necessità di ricordare quegli eventi, esplorando il proprio passato e il modo in cui questo ha condizionato il modo di rapportarsi agli altri, ma rivedendolo anche dal punto di vista dell’altro. E considerando la propria identità non come un dato fisso – che è ciò su cui fanno leva i politici che la trasformano in ragione di conflitto – ma come qualcosa in costante mutamento attraverso questo confronto con l’altro. Nonostante il trattamento “spettacolare” della materia, L’insulto non è dunque un film politicamente “innocuo” (4) ma indica a tutte le parti in causa – a livello dei leader politici e della gente comune – un percorso non facile.

È dunque un film che lascia un’impressione prevalentemente positiva, anche se non tutto convince. La sceneggiatura, ad esempio, esagera talvolta nel cercare colpi di scena “effettistici”, nel creare coincidenze (che i due avvocati contrapposti in tribunale siano padre e figlia è una sorpresa francamente eccessiva, per quanto il regista sappia giocarsela bene) e nel sovraccaricare la situazione di significati (la figlia di Toni, a rappresentare l’incerto futuro). E la regia, per quanto dinamica e coinvolgente, adotta anche scelte stilistiche grossolane. Doueiri padroneggia con disinvoltura i ritmi del film processuale e dirige in modo sapiente gli interpreti, ma usa la musica con una pesantezza didascalica che sembra presupporre uno spettatore a cui debba essere suggerita, o addirittura imposta, qualsiasi reazione (lo stesso problema si avvertiva anche in The Attack).

Ad ogni modo, il film è stato molto ben accolto dai recensori americani che lo hanno visto a Venezia – si leggano le recensioni di «Hollywood Reporter» e «Variety» – e, al momento in cui scrivo, è stato incluso tra i nove titoli che competono per l’Oscar al miglior film straniero. Per Doueiri ci sono dunque le premesse per una carriera internazionale. C’è da sperare che l’eventuale promozione a budget più consistenti e star internazionali non lo conduca verso film dal carattere impersonale (come, al momento, sembra avviato il palestinese Hany Abu-Assad) ma lo porti semmai a calibrare in modo più misurato gli strumenti di un cinema capace di “spettacolarizzare” hollywoodianamente i problemi politici e sociali.

 

 

(1) Anche se a Doueiri manca la sottigliezza di un Fahradi o di certi rumeni, maestri nell’esplorare attraverso le loro sceneggiature la pluralità di torti e ragioni che coesistono – a seconda di come le si guardi – nelle azioni umane.

(2) Indro Montanelli, Qui non riposano (1945), Marsilio, Venezia 1982, pag. 190.

(3) Il personaggio è qui connotato come eccessivamente esaltato dalla retorica del suo partito.

(4) Le polemiche che il film ha suscitato, in Patria e in tutto il Medio Oriente, lo confermano. Su queste controversie si veda l’intervista al regista sul sito del Middle East Institute: http://www.mei.edu/content/article/interview-ziad-doueiri-director-insult.