CINEFORUM / 574

Le anime ferite di Stéphane Brizé

Una vita (1883) è il primo dei sei romanzi di Guy de Maupassant, meno compiuto, ad esempio, di Bel Ami o Pierre et Jean, e senza la folgorante capacità di sintesi dei grandi racconti come Boule de suif o Casa Tellier. Nonostante vi si avverta l'influenza dell'amico di famiglia e padre letterario Flaubert, si tratta di un testo comunque originale, ancor oggi da divorare per la sua modernissima attitudine a scandagliare l'animo umano e i meccanismi sociali senza indulgere a psicologismi e sociologismi. Nella versione cinematografica, per un approfondimento della quale rinviamo alla scheda di Nicola Rosello in «Cineforum» n. 566, luglio 2017, Stéphane Brizé e la sua cosceneggiatrice Florence Vignon hanno innanzitutto lavorato per sottrazione rispetto alla matrice letteraria, rimanendo sostanzialmente fedeli al suo sviluppo narrativo, costretto all'essenzialità dell'ellissi. Come esempio del metodo del regista potremmo citare la sequenza in cui Jeanne scopre il tradimento di Julien. In una notte di tempesta la donna va a bussare alla porta della cameriera, che non risponde. Allora Jeanne entra nella stanza del marito. Rapido stacco di montaggio su un esterno notte in cui lui insegue lei, con il vento e la pioggia che quasi soffocano le grida di entrambi.

Coerentemente con questa scelta di andare contro ogni orpello del film in costume, per non dire dei soprassalti del mélo, Brizé usa poi l'antico formato 1,33:1, ci sembra, non tanto per stendere una patina d'epoca sulle immagini, quanto al fine di restituire anche fisicamente l'idea dello spazio angusto in cui la protagonista è costretta a dibattersi, mentre la macchina a spalla la accompagna per captare con sensibilità e precisione i moti del suo animo. Nella stessa direzione va la prevalenza dei piani ravvicinati, usati quasi programmaticamente, ad esempio, nella sequenza della prima notte di nozze, che vede sovrapporsi una sbrigativa concupiscenza sul volto di Julien e la paura e il disgusto su quello di Jeanne. D'altronde, per quanto riguarda la sua ricerca di un linguaggio improntato al rigore, Brizé ha affermato, sia pure sommessamente, che i suoi punti di riferimento obbligati sono Dreyer e Bresson.

Percorrendo a ritroso l'opera del regista, ci si rende conto di come quello che a tutt'oggi rimane il suo momento alto, nonostante lo scarto dovuto all'ambientazione ottocentesca, sviluppi in assoluta coerenza quelle costanti, tematiche e stilistiche, che in esso trovano piena realizzazione. Si potrebbe addirittura cominciare dal cortometraggio Bleu dommage (1993), in cui «il dialogo non si limita a imbastire una storiella, ma riesce a rivelare qualcosa dei personaggi» (Bocchi-Malavasi, nel Catalogo del Meeting) e il medio L'œil qui traîne (1996), del cui protagonista viene sottolineata l'insoddisfazione nevrotica. L'approccio al tema della frustrazione diventa più corposo e insieme sfumato nel lungometraggio d'esordio Le bleu des villes (1999), in cui le aspirazioni di Solange, grigia poliziotta di una grigia cittadina, che cova segretamente l'ambizione a diventare cantante di musica leggera, si confrontano con il successo di una meteorologa televisiva ex compagna di scuola, innescando la fuga da una realtà mediocre anche sul piano della quotidianità familiare, lo sgradevole impatto con la metropoli e il conseguente ridimensionamento del nuovo orizzonte professionale, con la donna che alla fine si esibisce in un locale di anziani. Già ben attrezzato per l'uso delle sfumature e dei mezzi toni, Brizé si concede il lusso di un colpo d'ala, momento forte di sceneggiatura e soprassalto di regìa, quando Solange, alle esequie della nonna, l'unica persona a esserle davvero stata vicina e avere svolto una funzione in qualche modo educativa nei suoi confronti, recita come elogio funebre la ricetta della famosa torta della defunta.

Altra anima ferita il cinquantenne Jean-Claude di Je ne suis pas là pour être aimé. Fa il mestiere poco gradevole dell'ufficiale giudiziario, e dunque lo vediamo mentre pone sotto sequestro le povere cose di una donna di colore che non paga l'affitto da mesi. In ufficio le parole che spende con i suoi impiegati si limitano all'ordinaria amministrazione professionale, le domeniche le spende nella casa di riposo giocando a Monopoli con un padre nervoso e autoritario (un impressionante Georges Wilson nel suo penultimo appuntamento con lo schermo). Iscrittosi alla scuola di tango che sbircia dall'altra parte della strada, entra con titubanza in quella strategia di comunicazione erotica che le movenze del ballo argentino implicano, risucchiato finalmente, sia pure a fatica, fuori da quella solitudine alla quale sembrava irrimediabilmente condannato, sbilanciandosi in un difficile rapporto con una ragazza più giovane e promessa a un altro. Pierre Chesnais e Anne Consigny sono gli strumenti impeccabili in quella sorta di strategia del gesto e dello sguardo che costituisce il segno distintivo del cinema di Brizé, che anche qui si produce in un colpo di scena a scoppio ritardato quando il protagonista scopre in un armadio i trofei tennistici che il padre gli aveva detto di avere buttato via, spingendolo a ripercorrere attraverso i ritagli di giornale la sua lontana carriera di campioncino dagli orizzonti limitati.

Altra storia d'amore difficile, quasi sussurrata, in levare, quella tra la maestra Véronique e il muratore Jean di Mademoiselle Chambon (2009). Qui l'impedimento melodrammatico è duplice: la differenza di cultura e il fatto che lui è sposato, padre di un figlio e in attesa di un altro. Sono la sapienza artigianale e il vigore fisico che Jean dimostra riparando una finestra della sua casa da attrarre Véronique, che a sua volta fa breccia nel cuore dell'uomo eseguendo Elgar al violino. Ambiente di provincia, vite semplici, momenti di ebrezza e passione soffocati dal senso di responsabilità e colpa. Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon sono straordinari nella gestione dei mezzi toni, del desiderio accompagnato fatalmente dalla paura, di una passione bruciata in un attimo e che questo film di misurata tenerezza e lancinante malinconia fa intuire lascerà un ricordo indelebile in entrambi.

Il “proletario” Lindon diventa un'icona del cinema di Brizé altre due volte, con accentuazioni sempre più drammatiche. In Quelques heures de printemps (2012) è un camionista che, uscito di galera per traffico di droga, accompagna in Svizzera a morire la madre, interpretata dalla magnifica Hélène Vincent, con la quale ha un rapporto conflittuale che esplode infine nella scenata e nel grido, attuando dunque un parziale mutamento di registro rispetto ai precedenti, non senza qualche squilibrio nella sceneggiatura, soprattutto nella storia d'amore con l'occasionale compagna interpretata da Emmanuelle Seigner. In La legge del mercato è un operaio che ha perso il lavoro a causa della delocalizzazione e che, dopo una serie di colloqui umilianti, si adatta a svolgere il compito poco gradevole di controllore occulto in un supermercato.Trattandosi del titolo più direttamente politico e legato all'attualità nella filmografia del regista, è stato oggetto di polemiche di diversa angolazione, per le quali rinviamo alla scheda di Julien Lingelser in «Cineforum» n. 550, dicembre 2015.

Vogliamo concludere segnalando come il cinema classico di Brizé non sia chiuso alla sperimentazione. Ne fa fede Entre adultes, un “piccolo” film realizzato nel 2006 in attesa di trovare i finanziamenti per Mademoiselle Chambon. Prodotto dai Lelouch padre e figlio con un budget irrisorio, girato in pochi giorni, interpretato da attori professionisti ma pressochè sconosciuti, costruito come una serie di quadri che rimandano alla narrazione fumettistica, è una ronde schnitzleriano-ophulsiana con dodici personaggi che a staffetta consumano un rapporto sessuale, o discutono della sua eventualità, passata o futura. Se il girotondo di donne e uomini a letto o in auto, in cucina o in ufficio, rimanda con accentuata crudeltà alle anime ferite degli altri lavori del regista, la struttura se ne discosta in maniera evidente, facendo ipotizzare altre strade di una possibile ricerca.