CINEFORUM / 581

7 uomini a mollo

Affidandosi alle logiche narrative e formali della commedia di costume alla francese, un genere che in tempi recenti ha saputo guadagnarsi il consenso delle grandi platee (penso alle intenzioni furbescamente accattivanti e populiste del cinema di Klapisch), Gilles Lellouche si è provato qui a condurre una riflessione non banale sul trascorrere del tempo e sui patemi esistenziali della classe media transalpina dei nostri giorni. I maschi goffi, sgraziati e infelici che il film ci descrive sono colti nel pieno della crisi di mezza età: una stagione difficile che li rende incapaci di placare i propri tormenti individuali. Se il malessere che li divora nasce da ragioni differenti (problemi familiari o psicologici, fallimenti lavorativi, aspirazioni irrealizzate, difficoltà finanziarie, solitudine, ricordi dolorosi di un'infanzia infelice…), esso nondimeno rischia di tradursi, per ciascuno di loro, in avvilimento e disistima di sé, rinuncia a inseguire i sogni di vita, rassegnata accettazione di un senso di inadeguatezza alla realtà.

La decisione di costituire una squadra maschile di nuoto sincronizzato e di partecipare ai campionati del mondo – una decisione sconcertante, che non mancherà di esporre i protagonisti al facile dileggio: da sempre, il nuoto sincronizzato è una disciplina abitualmente riservata alle donne… -– si tradurrà di fatto in un'esperienza collettiva di rigenerazione interiore che consentirà agli ometti di scuotersi dal loro torpore malsano, sottrarsi al senso di vuoto e spaesamento in cui sono precipitati e riacquistare un'immagine appagante di sé. L'avventura che essi intraprendono in piscina (l'acqua, nel film, diviene una sorta di tepido rifugio amniotico, sottratto alla desolazione della realtà quotidiana) dovrà giocoforza realizzarsi attraverso il rifiuto dei miti dominanti, celebrati dalla società contemporanea (il culto della bellezza fisica, della giovinezza, della prestanza mascolina, del successo economico, dell'individualismo) a tutto vantaggio di valori altri, più umili e vitali (lo spirito di solidarietà che si crea tra poveri diavoli, la comprensione reciproca, la complicità amicale). Accettando di sottoporsi alla disciplina rigidissima che sarà loro imposta da un'allenatrice virago inchiodata su una sedia a rotelle (Amanda assume nel film il ruolo della guida dispotica e astiosa che dirigerà a colpi di scudiscio il lavoro di redenzione del gruppo), Bertrand e gli altri giungeranno a mettere a nudo il lato più ignoto e “femminile” di se stessi («Dovete cercare la donna che è in voi!», strilla Delphine, l'altra allenatrice, usa a dirigere gli ometti leggendo le poesie di Rilke). Ma questo permetterà loro di ridefinire la propria identità e cambiare il corso dell'esistenza.

La pellicola esibisce un impianto narrativo a mosaico in cui i segmenti dedicati al quotidiano dei personaggi si alternano alle scene di gruppo. Lellouche, qui per la prima volta da solo dietro la macchina da presa, descrive con l'occhio dell'osservatore bonario e indulgente, che avverte la condizione di pena dei suoi eroi e la loro ansia di riscatto. Ne emerge un ritratto generoso e complice dove lampi di umorismo arguto, fitto di lazzi verbali e situazioni burlesche, si alternano a scene in cui il fondo malinconico sconfina talora nel patetico, senza che però l'amalgama tra tono faceto e tono grave dia mai nello stridente. Il regista sa padroneggiare le cadenze del comico, coadiuvato in ciò dalla buona prova degli interpreti. La freschezza, il respiro arioso e sbrigliato della messa in scena, dove emergono pure rutilanti, festosi arabeschi alla Wes Anderson (penso soprattutto all'incipit del film), trova però qualche inciampo nella parte conclusiva del film in cui si avverte qualcosa di rugiadoso e compassato.