CINEFORUM / 581

Da Forrest a Robert: metacinema redfordiano

L'inizio è una notazione d'obbligo, evidente e peraltro apertamente dichiarata dagli interessati. Una notazione finanche banale di cui mi scuso, ma dovuta, per completezza informativa. Chiunque abbia mai sentito nominare Robert Redford sa, perché annunciato ripetutamente, che questa è la sua ultima interpretazione e qualunque spettatore si sia accostato anche distrattamente al film si sarà accorto che si tratta di un lavoro celebrativo, riassuntivo di un'intera carriera. Definitivo, con tutto il carico di abusata attribuzione che tale parola porta inevitabilmente con sé. Facendo i debiti scongiuri (e anche le opportune proporzioni), Old Man & the Gun è il The Shootist di Redford. Così come il film di Siegel officiava il tramonto di un'icona, sovrapponendo il divo John Wayne al personaggio di John B. Books, entrambi invecchiati e malati, sancendo anche la metaforica fine (una delle tante, dagli anni Settanta in avanti) di un genere che John Wayne più di ogni altro aveva rappresentato, così nel suo piccolo David Lowery si rifà al modello preesistente per allestire un'operazione del tutto simile.

Redford è sì Forrest Tucker, incallito e attempato rapinatore gentiluomo reso celebre dalla cronaca e soprattutto dal raffinato articolo di David Grann pubblicato sul «New Yorker» del 27 gennaio 2003 che fornisce il soggetto del film, ma Redford è soprattutto Redford himself. L'aggancio tra un articolo di oltre cinquantamila battute e il film è una frase che riporta il pensiero di Tucker sulla vera essenza di un rapinatore, in netto contrasto con i brutali criminali che entrano in banca e puntano esclusivamente sulla forza persuasiva delle loro armi: «The best holdup men […] were like stage actors, able to hold a room by the sheer force of their personality», i migliori rapinatori erano come attori teatrali, capaci di controllare un ambiente con la sola forza della loro personalità. Un rapinatore che si fa attore, quindi, confonde la sua presenza con un divo che sfrutta il ruolo del criminale per riassumere la sua intera carriera.

La stessa coincidenza che si aveva in John Wayne, il cui passato di personaggio era riassunto nel prologo attraverso le immagini delle pellicole da lui interpretate (Hondo, Il fiume rosso, Un dollaro d’onore ed El Dorado), si ha in Old Man & the Gun in virtù di una costruzione volta, perlomeno nelle intenzioni, a un'articolazione onnicomprensiva. Lowery si serve infatti di sequenze preesistenti (Redford giovane evaso in La caccia di Arthur Penn per illustrare una parte della magnifica sequenza a episodi sulle singole evasioni di Tucker), di vere foto tratte dal book dell'attore (che nella finzione si trasforma nel dossier del pregiudicato) e di ammicchi piazzati qua e là ad uso dei cinefili. L'elenco qui potrebbe essere naturalmente lunghissimo (e altrettanto ovviamente stucchevole), anche perché il reale personaggio di Forrest Tucker si riveste di materia cinematografica come un Prospero shakespeariano, abbandonando la sua verità cronachistica per assumere sostanza redfordiana.

Difficile non immaginare di sentir pronunciare dal protagonista a ogni sportello di banca «Esto es un robo. Manos arriba» (e la didascalia iniziale «This Story Is Mostly True» che replica il «Most of What Follows Is True» di Butch Cassidy è più di una dichiarazione d'intenti, quasi una volontà di riconoscimento filiale). Ed è altrettanto complicato non pensare che il confronto tra ricercato e poliziotto (un Casey Affleck ormai perfettamente a suo agio in panni undertone) abbia un diretto e drammatico ascendente nel dialogo finale tra lo stesso Redford e Cliff Robertson in I tre giorni del condor (anche se qualcuno ci ha visto il testa-a-testa DeNiro-Pacino in Heat - La sfida).

Lowery racconta la performance, dunque. Quella di una vita (artistica) concentrata in un'ora e mezza di durata. Con buona pace di Forrest Tucker, gran bel personaggio ma che se mai accederà nell'immaginario lo farà con le fattezze del divo che gli ha fornito carne e sangue, un volto su cui compaiono nitide le pieghe del tempo, uno sguardo ancora brillante, benché un po' ammaccato, e una cedevolezza delle giunture molto più marcata rispetto anche solo a cinque anni fa, in quel piccolo gioiello condotto in solitario e passato sotto silenzio che è All Is Lost di J. C. Chandor.

In funzione di questo, la banca, più che un luogo in cui si compie il misfatto, è il set nel quale il rapinatore/performer mostra la sua enorme abilità. Tutto il resto diventa convenzione drammaturgica. Il titolo del film punta sull'unione tra l'anzianità e una pistola, ma la pistola in realtà viene proposta nelle modalità di una negazione pressoché assoluta. Ripetutamente, Lowery fa che la pistola sia un fatto assodato ma non rivelato, una dichiarazione d'intenti che non trova mai un corrispettivo nell'azione. Meglio: la trasforma in un'ipotesi che induce a una categoria di obbligate reazioni susseguenti. Perché la pistola c'è, è lì, ma è collocata in un fuoricampo perpetuo in cui basta un'apertura della giacca, un volto fermo e gentile, un suono evocativo nella colonna sonora, lo sguardo smarrito del direttore o dell'impiegato per rivelare la natura dell'operazione bancaria che Tucker/Redford intende compiere. Perché Old Man & the Gun, proprio a causa della sua vera natura, è uno strano film sulle rapine privo quasi totalmente di azione, ma colmo di reazioni a una serie di eventi dati per scontati in funzione della convenzione drammatica che rappresentano. Un hold-up movie svuotato, sicuramente molto meno drastico ed estremo di Le Iene di Tarantino (e anche meno ingegnoso della rapina immaginata ne La sanguinaria di Joseph H. Lewis) ma, almeno nelle intenzioni, parimenti metacinematografico, se non proprio metaredfordiano.

Il metacinema di Lowery si sostanzia anche nella ricerca di un'essenza d'antan che ambienti e renda manifesta l'ispirazione. Immagini di grana grossa, girate in 16 mm, colori pastosi, montaggio intensamente frammentato (molto più frammentato rispetto alla durata media di un'inquadratura delle precedenti pellicole di Lowery), brevi zoomate, obiettivi a focale lunga, raccordi tra i piani con panoramiche a schiaffo: è questo il teatro, essenzialmente Seventies, in cui si svolge una vicenda fondata quasi del tutto sull'intensità della recitazione e sulla qualità della scrittura. Uno sfondo ideale e idealizzato di un tempo glorioso – quanto illusorio – in cui indipendenza e autorialità sembravano preludere a un modo nuovo di realizzare cinema. Un'estetica diventata brand che occhieggia, nuovamente, più alla fase maggiormente celebrata della carriera di Redford che a una volontà realistica di ambientazione, poiché la vicenda narra quasi totalmente ciò che succede a Tucker durante il 1981, una sorta di limbo cronologico rispetto alla consueta definizione figurativa degli anni Settanta.

E poi c'è anche Lowery, che corre il rischio di rimanere compresso sotto l'abbozzo del monumento da lui stesso eretto. Al di là della duttilità mostrata nell'assumere uno stile che non gli è abituale a beneficio dell'impianto narrativo e simbolico globale, cosa rimane di personale che possa essere ricondotto a un'idea di cinema piuttosto precisa, mostrata compiutamente in Senza santi in paradiso e in A Ghost Story? Il senso del tempo, che in A Ghost Story caratterizzava ogni singolo aspetto con il suo andamento ciclico sul piano strutturale e dilatato nel suo svolgimento lineare, in Old Man & the Gun subisce uno stravolgimento concettuale, una contrazione che restringe gli eventi condensandoli, ricorrendo più volte alla reiterazione e all'episodicità di situazioni simili per evidenziare le elevate cadenze con cui si succedono gli eventi. Su tutto aleggia un senso di estrema compattezza, complice anche l'incidenza della colonna sonora, pronta a fornire un commento costante in ogni sequenza, in perenne bilico tra la concreta coesione e la fastidiosa invadenza.

Eppure, Lowery mostra un apprezzabile colpo di coda, decidendo di inserire un elemento completamente slegato dal contesto ma non estraneo alla sua filmografia: la firma del costruttore che compare su un muro dell'abitazione gravata da ipoteca di Sissy Spacek, come se fosse la testimonianza di un'anima soggiacente da cent'anni che ricorda fin troppo da vicino il biglietto inserito dal fantasma nello stipite della porta in A Ghost Story. Un'incisione a mo' di firma, discreta, sotto il monumento. Con la consapevolezza, tuttavia, che in questi casi alla fine conta il soggetto ritratto, non l'artefice.