CINEFORUM / 585

Il Grande Spirito

In se e per sé la vicenda di Tonino e Renato sarebbe abbastanza prevedibile e tutto sommato anche molto vista. Ma non è solo un film di personaggi e di volti Il Grande Spirito, quattordicesima regia di Sergio Rubini, quanto il ritratto di una città e di un ambiente. La città è Taranto, lo spazio vitale che influenza, anzi, di più, sovrasta e ingloba i personaggi, è l’ILVA, la grande fabbrica, una delle più grandi acciaierie del mondo, un mostro che tutti i giorni inonda l’aria di scorie di ogni tipo, devastando i polmoni, il fegato, gli occhi, la vita di chi è costretto a subirne le conseguenze. Ma l’ILVA è anche tutt’oggi una delle rarissime occasioni di lavoro vero, pulito, in un Meridione da decenni abbandonato a se stesso, dopo la fine delle politiche di intervento statale che si erano consolidate in politiche di assistenza, di welfare.

In questa morsa vivono tutti i personaggi di queste zone, compreso il palazzo in cui va a rifugiarsi Tonino, detto Barboncino, il ladruncolo che, stanco di essere vessato e umiliato dal suo boss, decide di prendere il bottino di una rapina e filarsela via. Scatta immediatamente una caccia all’uomo, di strada in strada, di palazzo in palazzo, di tetto in tetto, finché non si trova davanti, per l’appunto Renato che lo accoglie definendolo «l’uomo del destino». Tra i due si sviluppa subito uno strano rapporto d’amicizia, basato sulla convenienza dell’uno di trovare riparo dai suoi nemici, dell’altro di trovare finalmente un amico che stia ad ascoltare i suoi racconti sugli indiani. Nel lavatoio che da tempo ha adibito a casa, Renato, autoribattezzatosi “Cervo Nero”, custodisce gelosamente vari reperti pellerossa: una mappa del Canada, pipe per fumare, arco e frecce per cacciare e così via.

Siamo in una periferia degradata, di più, consegnata da anni dallo Stato alla malavita e alle bande. Sotto al palazzo bivaccano indisturbati gli sgherri che cercano Barboncino. Dentro, nelle case, il popolo che abita queste case, sopravvive in un modo triviale, abbandonato alla sopraffazione e alla violenza quotidiana. Dal terrazzino il furfante e il ritardato che pensa di essere un pellerossa osservano stralci delle misere vite di questo sottoproletariato senza speranze, che vive senza coscienza di sé e dei propri bisogni. Su tutti c’è una povera donna, vessata in ogni modo, anche fisicamente, dal marito, si prostituisce per mettere da parte i soldi che un giorno le consentiranno, spera di fuggire via da tutte quelle brutture. Il luogo che ha scelto per esercitare la propria professione è proprio la stanzetta dell’ex lavatoio in cui ora vive Renato. Ma non c’è nulla di trasgressivo in queste fughe temporanee dalla vita domestica, perché il marito, avvertito, chiede alla donna di consegnargli la paga guadagnata.

Insomma, le condizioni umane ed esistenziali di questo spaccato di Meridione sono terrificanti, quando Renato “Cervo Nero” si volta verso l’ILVA che sbuffa i suoi fumi e i suoi detriti nell’aria, c’è la disperazione chi ha visto rovesciarsi in una disgrazia quelle che decenni fa era state le speranze di dare, con l’industria, anche un’occasione di futuro a territori abbrancati al sottosviluppo e all’arretratezza. Certo c’è un tesoro da portare in salvo, ma a quello questo minorato che crede ancora, nei suoi sogni di bambino invecchiato, negli spiriti delle pianure, non pensa praticamente mai. Anzi, tutto il suo sforzo è quello di convincere Barboncino, il lestofante deriso da tutti, che quei soldi racchiusi nella sacca, in fondo non valgono di più di una serata passata assieme a fantasticare su un viaggio, che ovviamente nessuno dei due farà, nelle terre selvagge del grande popolo degli indiani d’America.