CINEFORUM / 591

Era un padre

Ci sono almeno due filtri attraverso cui leggere questo primo film da regista di fiction di Casey Affleck. C’è la vicenda di un padre e di una figlia, costretti a spostarsi in continuazione per evitare di subire le minacce da parte di un’umanità il cui spirito di sopravvivenza ormai sovrasta le regole di convivenza civile, spazzate via da una misteriosa epidemia responsabile dell’estinzione del genere femminile. Dall’altra c’è una modalità soggiacente derivante da una matrice extranarrativa, dovuta alle sgradevoli accuse di molestie che hanno investito Affleck nel 2017, in concomitanza con l’Oscar per Manchester by the Sea e la nascita dei movimenti #MeToo e Time’s Up, costringendolo l’anno dopo a rinunciare alla presenza sul palco nella notte degli Oscar per premiare la Miglior attrice (accuse per le quali l’attore si è scusato, derubricando la sua eventuale responsabilità al mancato controllo di ciò che succedeva sul set del suo primo film, il brillante mockumentary Joaquin Phoenix – Io sono qui!). Da un lato, l’amore e la difficoltà di crescere i figli (e di crescere come figli) che si fa precisa metafora di un mondo disgregato in cui ogni interazione è una potenziale minaccia; dall’altro, un significato accessorio che molti hanno visto come un esplicito atto di scuse in formato artistico.

Di vero c’è una lunghissima genesi, quasi dieci anni, per un film scritto scena dopo scena, dialogo dopo dialogo, pur essendo ancora privo di un intreccio che andasse oltre la presenza delle due figure protagoniste, il padre e la figlia, centro irradiante successivamente rivestito dalle ossessioni personali di Affleck (World War Z, I figli degli uomini, The Road – io ci vedo anche la prima parte di Amnesia Moon di Jonathan Lethem e la serie inglese della metà degli anni Settanta Survivors, ma immagino sia un problema del tutto personale). Una sequenza dopo l’altra, partendo dall’esigenza personale di sapere cosa voglia dire prima diventare e poi essere genitore e osservando attentamente le figlie del fratello Ben per plasmare in sceneggiatura il personaggio di Rag (Casey ha invece due maschi: portatori di un’altra sensibilità). Il tutto condito da un traumatico divorzio da Summer Phoenix avvenuto in corso d’opera (nel 2017), a cui si deve la materializzazione allegorica del côté distopico privo di donne in cui i due personaggi si muovono.

Il risultato, dopo una sforbiciata di circa un’ora per rientrare nei vincoli previsti dal contratto, è una storia divisa in quattro blocchi, in cui si alternano lunghe parti dialogate, soprattutto racconti inventati e riflessioni, che fungono da metafora e anticipazione all’azione successiva, in cui l’eventuale incontro con l’altro-da-sé è sempre fonte di minaccia e tensione e, per questo, sempre evitato. In questo schema procedurale, nel quale la monade protagonista si muove con lo scopo di restare sempre isolata rispetto al contesto apocalittico, Affleck dispiega uno stile minimalista che si sofferma sull’essenza di situazioni e personaggi, cercando di restituirne motivazioni, paure e istinti di conservazione. Al di là dell’influenza di Gus Van Sant, dichiarata in diverse interviste, la quale si ravvisa soprattutto nei piani in esterni, in ambienti privi della presenza umana in cui appare più esplicito il magistero di Gerry (ma anche dei campi vuoti che in Da morire anticipavano progressivamente il freezed body di Nicole Kidman), sono essenzialmente due i punti di vista con cui Affleck propone le sue immagini, concependole quasi per opposizione. Uno è il piano a due dall’alto su uno spazio intimo, generalmente la tenda in cui i protagonisti riposano, rischiarato solo da una torcia elettrica, senza contorni, la cui intenzione è mostrare apertamente il senso di esclusività della coppia per proporlo come indicazione di sicurezza. È questo lo spazio nel quale il padre si confronta con la figlia Rag, in cui le racconta le sue storie e ascolta le risposte e i dubbi della bambina. Il luogo inviolabile, frutto dell’amore genitoriale e del conseguente istinto di protezione.

L’altro punto di vista si evidenzia nel rapporto con gli altri, ed è sempre un’immagine apparentemente estorta, quasi pudica nel mostrarsi in un luogo non più intimo e quindi potenzialmente sempre pericoloso. La macchina da presa, in questo caso, resta fuori dallo spazio dell’azione, osservando dall’esterno e utilizzando gli stipiti delle porte come un raddoppiamento del quadro e come quinta scenografica in grado di dialogare con il fuoricampo quando l’azione diventa violenta. A queste due prospettive vanno aggiunti i brevi flashback luminosi, dai colori caldi, che si materializzano nei pensieri del padre e illustrano le origini dell’apocalisse che i personaggi stanno vivendo, oltre alla mancanza incomprimibile della madre/moglie, intesa come donna in grado di dotare il mondo di un equilibrio ormai perduto. Se lo sguardo proposto appare piuttosto sommario, più raffinata è invece la contestualizzazione ambientale, con le evidenze del clima che si fanno via via più aspre con l’aumentare del pericolo per i due protagonisti, fino a costringere la figlia, nella sequenza finale, a trascinare dietro di sé nella neve alta un pesante carico per poter soccorrere il padre ferito e portare parallelamente a compimento il suo percorso di crescita.

Il percorso di crescita di Rag è il primo filtro di lettura, si diceva. Tutto ruota intorno a una distinzione iniziale tra etica e morale, spiegata dall’uomo alla figlia e confutata da questa riferendosi a un libro letto in precedenza che si fa specchio dei tempi rovinosi in cui i due sono costretti a vivere. Una crescita, quella della ragazza, che passa inevitabilmente attraverso un iniziale problema di identità, a causa del quale Rag deve fingere di essere un maschio, grazie a un complice taglio di capelli e a forme non ancora definite, in un universo post-epidemico in cui le donne sono diventate rarissime e per questo difese dalla brutalità generalizzata con ogni mezzo, camuffandole o nascondendole in luoghi segreti. Questo dissidio tra etica e morale frutto dei tempi oscuri è il confine che la ragazza deve necessariamente attraversare per diventare donna e sostituire il padre nella cura della famiglia, trasformandosi, nell’ultima inquadratura, dopo averlo salvato infrangendo la morale personale dando la morte a chi lo aveva aggredito, in una figura materna amorevole e consolatrice, capace di assolvere ruolo e funzione di quella stessa madre che non ha mai realmente conosciuto.

Maturare, diventare donna e madre, si lega inestricabilmente alla questione femminile, il secondo filtro proposto dal film. Crescere per Rag è diventare consapevole di se stessa come donna e ribaltare la prospettiva proposta (anche dal padre) in uno storytelling autonomo, in cui il genere femminile sia finalmente protagonista. Il riferimento è alla storia di una coppia di volpi, Art e Goldy, durante il Diluvio universale, raccontata dal padre nella prima scena − scena giustamente inserita come incipit dopo un dubbio iniziale in sede di progettazione che l’aveva fatta posizionare più avanti nella narrazione. In questa versione del racconto, Art, il maschio, ha il merito della riuscita dell’impresa, causando le rimostranze della bambina che sarà costretta, successivamente, a ribaltare la prospettiva, proponendo al padre una soluzione con Goldy, la femmina, protagonista. Il protagonismo di genere in Light of My Life è una conquista narrativa, ottenuta attraverso un orgoglioso sforzo volto al riconoscimento della propria identità. Conseguita anche attraverso una palese attestazione che Affleck affida a due scene di dialogo: la prima, quando redarguisce la bambina sull’eventualità spregiativa di definire “bambola” una donna; la seconda, nel momento in cui è costretto ad ammettere che il ragazzo con cui si accompagna sia in realtà sua figlia e rassicurare, in questo modo, l’uomo che li ha accolti nella casa di montagna sulla legittimità del loro rapporto. Su entrambe le situazioni aleggia un acre profumo di excusatio non petita ma, piaccia o no, è il modo con cui Affleck tratteggia la riscossa del genere femminile, difendendolo come personaggio e decretandone, come sceneggiatore e regista, la maturità attraverso un complesso percorso di formazione, con la speranza di allontanare da sé, perlomeno artisticamente, le ombre addensatesi nel passato sempre faticose da diradare.