Bocconi prelibati

Bocconi prelibati

Critica e impegno civile

La critica contemporanea, corteggiata dalla diabolica democraticità del gusto e dell’opinione che abita sul social network, incorre in numerosi errori di prospettiva. Fra gli altri, quello di continuare a evocare – quando le torna molto comodo – un non meglio specificato “classico” (fino a che epoca un film può dirsi classico? la classicità cresce con l’avanzare degli anni? un film di vent’anni fa è ormai un classico?) o il cosiddetto cinema medio artigianale, trascurando – per pigrizia, per ignoranza, per entusiasmo – che un simile scenario produttivo non può più esistere (e le ragioni sono note e perfino banali), e che anzi non esiste già da molto tempo.

Il tanto decantato “impegno civile” di certo cinema odierno è, per chi voglia riflettere su alcuni prodotti del mercato, forse l’ostacolo più ambiguo e sdrucciolevole. Di recente, e in particolare negli Stati Uniti, molti film rindossano gli abiti di un immaginario che, qualche decennio fa, cercava una giustezza consapevole e privilegiata nella disapprovazione del sistema e nella difformità ideologica del singolo-contro-tutti. Era il cinema dei giornalisti che si battevano per diffondere notizie segretissime e nascoste, della carta stampata quale oasi felice in un regime claustrofobico, della rivelazione, della lotta – spesso contro i mulini a vento – per correggere i torti intrinseci di una società malata. Era il cinema liberal contro il potere: perché allora il paradosso di una voce fuori dal coro eppure dentro ai margini dell’industria era possibile, era presente; parlare al pubblico, a un pubblico sensibile e disposto ad ascoltare, parlare con un senso dell’indignazione vivo e rispettabile, perfino con gli strumenti dell’oligarchia hollywoodiana, era plausibile. Altri tempi, quando le contraddizioni sostanziali del sistema non soltanto consentivano le divergenze, ma ne erano in qualche modo la condizione.



Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Tuttavia la critica, in larga parte, sembra rimasta abbracciata a una dottrina appartenente all’ingenuità e al trucco delle migliori intenzioni. Con film come Il caso Spotlight, La grande scommessa, Truth - Il prezzo della verità e Zona d’ombra, ad esempio, il cinema americano pare rivendicare ancora una volta la necessità della denuncia, recuperando in superficie sviluppi e “pose” del passato nel tentativo di esercitare sulla realtà un gesto politico, di scelta, di parte. E la critica, rassicurata peraltro dal contesto più glamour (le nomination, i premi, le copertine), ne fa le spese, perché, nell’evidenza di un commercio monocorde, riacquistare una coscienza di causa, e ritrovarne per giunta anche un certo “sfondo” estetico, è senza dubbio seducente.

Ma questo cinema, così apparentemente “sentito”, così esplicitamente di condanna, oggi fa la figura di un vestito impolverato, sottratto a un armadio che dovrebbe rimanere chiuso. Poco importa lavorare di stile (pacato e dimesso per Il caso Spotlight, inutilmente confidenziale per La grande scommessa, spregevole in Truth - Il prezzo della verità e Zona d’ombra): l’impegno civile, perseguito e confezionato, e ammesso che possa essere ancora discusso, applicato, rappresentato, è adesso un’istanza che deve essere cercata e elaborata altrove. A che serve oggi un cinema in cui l’unica dinamica riconoscibile è quella della persona in guerra con lo status quo? È questo il cinema politico di cui abbiamo bisogno? O è esclusivamente un’esigenza di conforto, per una critica e per un cinema sommersi dallo spettacolo? E se l’impegno civile più virtuoso di questi anni cinematografici fosse da ricercare nell’elementarità dei sentimenti, e non in un confronto? Nella scoperta di un’emozione, e non di un segreto scottante?

A questo proposito, credo che per il cinema sia un impegno civile tutto sommato più doveroso, in un’era di agende della visione trasformate nel profondo, risvelare gli affetti, più che riprovocare le sfide. Per la critica, ossessionata dal noto e dal documentato, e schiacciata dalla responsabilità della comparazione, potrebbe essere una nuova partenza, o comunque un reboot degno d’interesse. Altrimenti i giochi sono sempre già fatti e già pronti: esce una commedia italiana, e tutti a misurarla con la commedia all’italiana; esce un film di denuncia, e tutti a ricordare quant’era bello il cinema di denuncia. Bellocchio l’aveva capito, con Bella addormentata: non serve raccontare la realtà, o castigare i colpevoli, quando della realtà stessa si tradiscono o si negano i sentimenti. È più di “impegno civile” un dramma educato come Brooklyn che tutto Truth - Il prezzo della verità (nonostante la presenza del volto democratico di Redford): cioè, riguardare al cuore e alle sue “incoerenze” possiede oggi un senso della e per la collettività molto più adeguato al mondo di ogni denuncia possibile. Non è un caso che Steve Jobs risolva ogni cosa, cronaca degli eventi compresa, con il dietro le quinte degli affetti, con il tormento di un “io” insufficiente a prendere le proporzioni dei sentimenti.

Se la critica ricominciasse da zero, e dai fondamenti, dimenticando finalmente un “classico” che non si può più adottare indiscriminatamente, allora forse meriterebbe di essere riconsiderata. Non è l’elogio dell’incompetenza (al riguardo, la critica migliore ha speso anni e anni con l’ambizione di risintonizzare il gusto del lettore sulla coscienza della Storia), ma il tentativo di smarcare la serietà dalla pedanteria. Sembra facile. Però il cinema, stavolta, non ha nessuna colpa. 

(Articolo è inizialmente apparso su ilbelcinema.it)