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In occasione dell'uscita del cofanetto Bluray della serie HBO Vinyl, pubblichiamo una recensione della serie e del prodotto. Il cofanetto, composto da 4 dischi, con sottotitotli in sei lingue e 1080p di definizione, oltre ai nove episodi contiene un making of della serie e i commenti degli interpreti Bobby Cannavale e Olivia Wilde e dell'autore Terence Winter e un breve inserto "inside th episodes". Costo 11,47 €.

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È molto probabile che Vinyl non sia stato il capolavoro che tutti aspettavano. Al tempo stesso, è altrettanto probabile che non sia stato nemmeno quel fallimento da molti decretato fin dopo il pilot e soprattutto dopo la notizia della chiusura della serie, nonostante le due stagioni inizialmente programmate. In generale, è forse ancora più probabile che la grande stagione delle serie tv, come ormai va di moda dire, sia in via di appiattimento su standard medi, e che, ancora, la serialità televisiva abbia in qualche modo tradito la speranza di diventare la nuova forma romanzesca dei nostro tempi (semmai è vero il contrario, e cioè che è stato il romanzo a serializzarsi…).

Tutto probabile. E forse ancora da dimostrare. Di certo, al di là della qualità della serie ideata da Martin Scorsese, Mick Jagger e Terence Winter, nel 2016 si sono viste e lette alcune cose che, al di là delle riflessioni giuste e inevitabili sull’evoluzione di forme narrative popolari e mutevoli, confermano come la cultura americana sia da tempo ripiegata su due argomenti precisi: il passato e la città.

Il passato: gli anni ’70 soprattutto, ma in certi caso anche decenni più vicini, come ad esempio i ’90. La città: New York, ovviamente. Il passato come accumulo di residui di immaginario e frammenti di cultura; la città come scena ideale e privilegiata per una messa in discussione del rapporto fra la Storia e gli individui. 

Il primo frammento da Vinyl ci torna in mente grazie all’uscita un paio di mesi fa, per la Warner e la HBO, dell’edizione bluray con tutti i nove episodi della serie (più il making, i commenti degli attori protagonisti Bobby Cannavale e Olivia Wilde e dell’autore Terence Winter). Come molti sapranno, la serie è ambientata nel 1974 e ricostruisce la scena musicale dell’epoca, fra la crisi del grande rock nato nei ’60 e l’emergere della scena punk (la prima, e questo punto unica stagione si conclude con l’annuncio casuale della nascita del CBGB, mitico locale nel Lower East Side di Manhattan, al 315 di Bowery Street): un momento derivativo, come tutta la serie forse, inevitabilmente – e volutamente – condizionata dal cinema di Scorsese stesso e soprattutto dal ricordo di film come Taxi Driver e Fuori orario.

In particolare, nella prima puntata della serie, il protagonista Richie Finestra, proprietario di una casa discografica sull’orlo del fallimento, si fa condurre dal suo autista oltre i quartieri rassicuranti che costeggiano il Central Park, dentro le strade di Harlem, fino alla casa di un vecchio amico che finge di non riconoscerlo: un momento abbagliante di memoria cinematografica condivisa, Scorsese si autocita, recuperando grazie al materiale di repertorio della New York anni ’70 (mescolato al camuffamento temporale delle scene girate ex novo) la grana grezza della pellicola e i colori sanguinolenti della fotografia di Taxi Driver. Le strade di Richie Finestra sono le stesse strade di Trevis Bickle, e Vinyl una inevitabile derivazione da un vecchio, grande film del passato, ormai sfuggito dalle mani del suo stesso autore ed entrato negli automatismi dello sguardo.

Una cosa, però, cambia leggermente la prospettiva e rende la scena in qualche modo diversa da un semplice trompe-l’oeil finto-vintage a uso costume del pubblico seriale: il fatto che Richie, mentre è seduto sul sedile posteriore dell’auto, ha gli occhi semichiusi, è strafatto e stanco, viaggia come un sonnambulo nella notte della città. La sensazione superficiale di immergersi non in uno spazio vero, ma in una versione iconizzata della metropoli americana anni ’70, è data proprio dal filtro dello sguardo del protagonista, dal fatto che ai suoi occhi la città si fa sogno, immagine riadattate e recuperata. La città come rifugio: rifugio di immagini, di modelli di rappresentazione, anche di modelli narrativi. Richie non è insonne come Travis, e nemmeno a caccia di avventura come un altro eroe notturno di Scorsese (questa volta in pieni anni ’80), l’impiegato Paul Hackett di Fuori orario. Richie sta dentro gli anni ’70 perché qualcuno ce l’ha messo, è una figura risaputa che si muove lungo lo scenario bidimensionale della Storia. 

Tutto ciò che sappiamo della musica rock anni ’70, tutto ciò che abbiamo mitizzato, esaltato, esecrato degli anni in cui il rock declinava e il punk rivoluzionava tutto, in Vinyl è presentato come materiale di repertorio, passato museificato o immagini piatte e non modificabili. A cominciare dalla colonna sonora, che sembra una libreria Seventies di iTunes; o dalla ricostruzione degli happening della Factory di Warhol; o ancora dai sogni in videoclip di uno dei personaggi. La musica, in Vinyl, è la materia di cui sono i fatti i sogni. Un sogno a strati, a scatti, uno scaffale su cui la scelta è troppo ampia per non essere parziale. Mentre la materia di cui è fatta della serie, è la materia di cui è fatta l’industria stessa, niente più e niente meno che il denaro. Solo attraverso la realtà grezza dello scambio, anche sessuale, Vinyl esce da una rappresentazione mummificata del passato, per entrare veramente negli spazi, nei tempi e nei luoghi di cui è fatta la Storia. La Storia come incrocio di desideri e interessi, calcoli e rivoluzioni. In tal senso, sì, le serie sono materia romanzesca, ridiscutono il rapporto tra senso collettivo ed esperienza individuale, scelte personali e onde collettive. La città, però, resta fuori, lontana, inavvicinabile, se non attraverso le immagini. La città come totem, come «vista cinematografico»

Questo è forse l’aspetto più interessante della prima parte di Vinyl, per altri aspetti condizionata eccessivamente dallo stesso, non richiesto riferimento al mondo scorsesiano: la presenza immancabile dei mafiosi, la violenza survolata ed espressionista, il luogo comune del legame inossidabile fra sesso, droga e rock’n’roll, il maledettismo di fondo che porta i personaggi ad autodistruggersi senza ragioni, a partire ovviamente da una colpa passata che non si riesce in nessun modo ad emendare.

Con il proseguire delle puntate, però, le cose migliorano, ed emergono gli aspetti più interessanti: le dinamiche interne alla casa discografica American Century, le campagne di comunicazione, le trattative con gli artisti, la discriminazione fra uomini e donne, fra bianchi e neri. Soprattutto, la difficoltà per i protagonisti (un branco di zoticoni – questo sì molto scorsesiano – che ricorda da vicino la compagnia tirata su da Jordan Belfort in Wolf of Wall Street) nel cogliere i movimenti della Storia quando ancora non sono chiari, la nascita nel silenzio delle rivoluzione culturali, l’emergere di figure ancora sconosciute (Springsteen, Patti Smith), il legame con i vecchi maestri (Elvis, John Lennon), l’emergere di movimenti lontani e incomprensibili, come la disco ballata nei ghetti neri o il reggae…

A conti fatti, più che una serie evento sulla grande scena rock di New York, Vinyl è proprio il racconto del fallimento che si è sempre fatto di quel mondo. A cominciare dal fatto che nel 1974 la scena rock attraversava un momento di crisi e la creatività era in un cul-de-sac. Vinyl è la nascita del contemporaneo, nel momento in cui il contemporanea non è ancora nato. È un lavoro sul presente, sull’eterno presente della storia, che smonta il mito degli anni ’70 come età dell’oro della creatività. Anche perché è la stessa musica rock a essere costruita sui soliti, vecchi accordi e a vivere della propria ripetitività. Lo si vede bene nella puntata numero 8 della serie, in cui un ex chitarrista blues diventato produttore musicale insegna ai propri giovani assistiti come ogni canzone, ogni genere contenga in sé uno scheletro formato da tre sole note: mi la sì. Da lì, da quello scheletro, nasce però una delle sequenze più geniali del recente cinema americano (sì, avete letto bene: cinema), in cui dal rock'n'roll si passa al blues e poi al pop, per dimostrare dove sta la magia irripetibile di un mito in realtà povero e semplice semplice…