Malatempora

Con un’ironia tutt’altro che sottile, anzi volutamente letterale, mentre l'astronauta Mark Watney avvia la realizzazione del folle piano di lancio-intercetto tra la navicella Mav (Mars Ascent Vehicle) e il modulo Hermes – già sulla carta a rischio di napoleonico disastro (che accadeva giusto 200 anni fa) –, parte Waterloo degli Abba, che poi è una canzone che usa quella disfatta bellica per parlare d’amore, anno 1974, un felicissimo esempio di disco music storico/epica; poco prima, mentre Mark galleggiava nell’atmosfera di Marte, lo spettatore ha ascoltato Starman di Bowie, 1972, che non serve neppure dire perché è appropriata, e nella quale, a un certo punto, si dice “There's a starman waiting in the sky” – e in effetti è proprio così, Mark sta aspettando, nel cielo, che qualcuno lo venga a recuperare. Poi, sui titoli di coda, I will survive di Gloria Gaynor, la canzone più coverizzata della storia della musica, ma qui, ovvio, riproposta nella sua originalissima versione del 1978, per un uomo che è sopravvissuto e ricomincia (Day 1). Ma si sono anche sentite – e non solo per colpa del nostalgico capitano Lewis, di cui Mark ritrova la playlistTurn the Beat Around (1976), Hot Stuff (1979), Don't Leave Me This Way (1975), e per quanto Mark abbia tentato di resistere a quel richiamo, niente, prima le spalle poi le braccia e infine le gambe e quindi tutto il corpo hanno cominciato a muoversi e a battere il tempo.

Fortunatamente, tutta questa musica gloriosamente disco non è una semplice colonna sonora appiccicata dove e come si può per strappare un sorriso o alleggerire, ma l’anima ritmica e melodica, e la lingua e il senso profondo, di un film che è seventies nella sostanza ma non nella forma – The Martian non è un film nostalgico né un film falso nuovo, non è un film citazionista né un film super/ipergenere (o degenere ecc.). Qui, il “dispositivo” cinematografico è proprio quello della disco ball simbolo della musica del decennio: la luce di immagini che raggiunge lo schermo e dà vita al racconto si rifrange prima dentro quel modello mentale, proiettando un pulviscolo spettacolare che seduce e meraviglia, pieno di cose colorate e in continua rotazione (come la Hermes), luci e stelle, scampoli di storie e emozioni, figure e forme possibili e in movimento. Animo leggero, intrattenimento, velocità e un pudore da pista perfettamente seventies per il dramma: ci si ferma sempre un attimo prima, per non rovinare la festa e la speranza che le cose possano o debbano finire bene.

Anche per questo, The Martian non è un film di fantascienza, ma una specie di Abbamovie pre-postmoderno in cui Scott coniuga con sapienza la serietà del cinema classico e la disinvoltura non ancora cinica dell’autore post-classico – perfetto antidoto alla seriosità contorta della fantascienza di Interstellar, con cui dialoga a distanza, nella differenza.

Ne esce allora, proprio come la musica degli Abba, un film letterale ma non superficiale, un film di tante cose e pochi pensieri, melodie e ritornelli, di psicologie all’osso e melò fermato sempre in tempo, di commedia trattenuta e luoghi comuni usati poco e nel modo giusto, di azioni dritte e cause e effetti senza sbavature e lungaggini. Un film piatto ed economico, che ricorre a una logica da rasoio di Occam allo scopo di tagliare con la Hollywood anabolizzata e supereroica di oggi, riuscendo nell’impresa di svuotare due ore e passa di durata.

E di questo dispositivo e di questa logica Mark – protagonista assoluto in un film corale all stars senza coralità – è la manifestazione perfetta, letterale, dotato di un’affascinante bidimensionalità hollywoodiana: pensa una cosa e la fa. Dà qualche giustificazione scientifica in video, frammenti di bla bla bla che mescolano matematica chimica botanica (ma poi, a chi importa?), ha rapidi cedimenti psicoemotivi senza drammi (niente picchi neppure in senso contrario, se non, prevedibilmente, nel finale), è un perfetto homo faber, artefice e artigiano di cose e destini targato Nasa (senza diventare un’ingombrante metafora dell’uomo americano o una pubblicità travestita per l’agenzia spaziale), ci crede fino in fondo ma non è né un eroe né un martire, non ha fede né religione (un crocefisso finisce sbriciolato tra molte scuse), ama lo spazio e la sua missione senza trasformarla – se non ironicamente – nell’inizio di una nuova età per l’umanità – è un botanico che infila le mani nella merda, o un pirata barbabionda che però può navigare solo per 4 ore prima di doversi fermare a ricaricare le batterie per 13. È un’ombra di luce stroboscopica e un corpo pesantissimo – a che serve la lunga, sanguinolenta e quasi inappropriata scena dell’estrazione del detrito dalla pancia di Mark se non a ricordarci che perfino la musica degli Abba aveva un cuore palpitante dietro lo splendore melodico?

Il segreto divertimento – gioia e godimento – che regala The Martian sta tutto in un felice equilibrio che Scott trova, una volta tanto, togliendo e semplificando, pulito e trasparente e ingannevole come un Hawks, muovendosi, come gli astronauti del film, in un’atmosfera diversa da quella di tanto cinema contemporaneo, non solo di fantascienza, a passo svelto e perfettamente coreografato, scivolando e piroettando. Tutto, in questo film, va di fretta (non a caso, per ben due volte, Scott, anziché montare e elidere, sceglie di accelerare le immagini), ma una fretta classicissima, come quella predicata da quel produttore che non voleva far consumare le suole agli attori (e annoiare gli spettatori): quando ci si muove, dev’essere per far musica e cinema.

Scott, insomma, fa esattamente come il suo Mark: che per poter spiccare il volo e salvarsi smonta il Mav pezzo per pezzo, togliendo zavorre e chili di tecnologia e computer, arredamento e scenografia, comodità e protezioni. Restano, alla fine, un astronauta e uno scheletro di navicella, tutto quello che serve, niente di più, leggeri quanto basta, pronti per il lancio finale. Let all the children boogie.