Sangue, proiettili e ottani

Sangue, proiettili e ottani

Locke, in viaggio ma senza strada

Ottani. Anche se non si vedono.

Facciamo un passo indietro, com'è nell'indole rétro di questo contenitore. Ignoriamo completamente Cannes e The Homesman, su cui ci riserviamo di discutere in futuro, e torniamo solo per un attimo su Locke, il congegno di Steven Knight già variamente discusso e diffusamente apprezzato (anche) per l'esaltazione del rigido codice morale in esso evocato.

A questa rubrica dell'eroismo del dovere di Ivan Locke non frega assolutamente nulla. Anzi, questa rubrica trova Ivan Locke un vero idiota. E anche un po' sfigato. Non un loser che tenta di porre romanticamente rimedio a una congiunzione negativa, ma un individuo noioso, pignolo fino allo sfinimento (altrui), ammalato di lavoro e intrappolato in un codice etico dalle mille falle ma dall'unico obiettivo.

Per le falle rimandiamo agli ottimi rilievi di Rinaldo Vignati comparsi su queste pagine, per l'agiografia laica dell'eroismo ci indigniamo con la massificazione del senso scaturita dalla stragrande maggioranza delle recensioni (anche di quelle che solitamente si vantano di essere fuori dal coro belante), quanto all'idiozia venata di sfiga ci basti ricordare che Ivan Locke, di professione capocantiere, abbandona la famiglia, il posto di lavoro alla vigilia di una titanica colata di cemento e (ancora più grave) la partita decisiva della sua squadra del cuore, per raggiungere una donna conosciuta per poco tempo, con cui ha avuto un (UNICO!) rapporto per compassione della sua solitudine, e che di lì a poco partorirà. Alfiere eroico del dovere contemporaneo o caso clinico che continua a parlare guardando nello specchietto retrovisore del suo SUV per rivolgersi a un padre che lo ha generato e poi ripudiato (con dolore e strascichi, evidentemente)?

Sangue, proiettili e ottani, come detto, non si sofferma sulle paturnie di Locke, ma il testardo Ivan, tuttavia, per raggiungere la donna del misfatto, sale sulla sua auto e percorre un'autostrada. Ottani, per l'appunto. Ma ottani con anomalia. C'è l'auto, si mette in moto, viaggia per circa un'ora e mezza per raggiungere l'ospedale di Londra in cui la donna degna di compassione sta per partorire, ma lo spostamento non si percepisce.

Il viaggio del film è un percorso interiore ed estremo, esclusivamente interno all'abitacolo, ancorato ai primissimi piani sofferti di Tom Hardy, alle sue soggettive che trapassano il parabrezza e s'infrangono sui fari posteriori delle auto che lo precedono, alle sovrimpressioni tra i finestrini uggiosi e macchiati dalle luci riflesse delle auto e il volto del personaggio, ai piani sul telefono che s'illumina in continuazione per animare un campo e controcampo fittizio che è il reale piano di confronto della storia.

La strada non c'è. Via, espunta. Le poche soggettive di Locke oltre il parabrezza non osservano realmente, diversificano. Sono piani di alleggerimento in un contesto claustrofobico, prospettive intersecanti che evitano la fissità catatonica dell'unicità del volto, ma che non esplorano, non guidano, non leggono né interpretano il tragitto. Perché il viaggio di Locke non presenta un solo imprevisto all'esterno, è quasi condotto con il pilota automatico: una pista da bob percorsa entro rigorosi limiti di velocità (una sorta di messaggio subliminale affidato al brand della BMW, simbolo spiattellato al pubblico durante la messa in moto del veicolo?).

Locke deve arrivare a Londra prima del parto, ma non si avverte l'impellenza di una corsa contro il tempo: Locke arriverà a Londra, nessuno nutre il minimo dubbio, e anche se arrivasse qualche istante dopo la sostanza non cambierebbe. La tensione è interna, completamente fuoricampo, esperibile solo sul piano dell'immaginazione compartecipe. Il dilemma è intimo, la strada un mero pretesto per uno scavo nella coscienza.

Non si tratta tuttavia della sola invisibilità del percorso (secondo questa prospettiva Locke non appare molto diverso da In linea con l'assassino): nell'abitacolo si moltiplicano inquadrature che paiono dotare il personaggio di un'essenza diafana, impalpabile, in netto contrasto con il cipiglio risoluto mostrato. Il volto visto tramite sovrimpressioni che ne annacquano i limiti, ne fluidificano i contorni e ne screziano la superficie con gli stop riflessi sui cristalli, potrebbe essere soltanto uno stucchevole effetto di stile, ma il reiterarsi dello schema puzza troppo di opacità da smarrimento, di incrinatura delle certezze propagandate durante il percorso.

La strada intorno al SUV del fiero Ivan Locke si vede (dall'alto) soltanto a meta raggiunta, quando il protagonista giunge finalmente a Londra dopo aver superato il muro del traffico, ma nonostante la sua ammirevole regia telefonica e il suo incrollabile senso di giustizia, le grandi domande alle quali egli dovrà rispondere rimangono inevase. Basterà veder nascere il bambino di cui è responsabile per essere diverso dal proprio padre? Vivrà ancora con la sua famiglia? Forse il vero viaggio di Locke inizia soltanto qui, alla fine del film.