Sangue, proiettili e ottani

Ottani. Apocalittici.

L'Australia si presta, indubbiamente. I Road Movie americani, pur nel deserto dell'illusione messo in mostra nel corso degli anni Settanta, illustravano una varietà, una riconoscibilità e una vastità di paesaggio che erano già di per sé un significante aggiunto del genere.

I film on the road australiani azzerano la varietà, inflazionano la riconoscibilità ed esasperano la vastità. Il risultato è una perenne impressione di scenari prossimi alla fine del mondo.

Così fu, in un contesto drammatico certo diverso, per la saga di Mad Max, così è per The Rover di David Michôd. Un universo senza centro in cui i soldi sono diventati carta straccia, la vita umana conta meno di quella di un cane in decomposizione e i crimini sono semplici atti impulsivi che un'anarchia diffusa ignora completamente.

Una strada che si snoda verso un punto di fuga infinito, piatto e brullo, all'interno di un universo collassato, ripiegato su se stesso e preda di un'inedia violenta e reattiva. Pare di muoversi sulla luna, solcata da utilitarie e fuoristrada. Potrebbe essere esplosa la Bomba, nessuno riuscirebbe a dimostrare il contrario. Tanto più che ogni volta che le auto si fermano, si palesa una minaccia in cui la posta in gioco è la vita.

Un uomo (Guy Pearce, laconico e intenso come spesso gli accade) insegue i ladri della sua auto fino a scovarli in una remotissima baracca e a fare giustizia sommaria dell'atto di cui si sono macchiati. In viaggio con lui, il fratello di uno dei ladri, abbandonato in terra in fin di vita dalla banda dopo un colpo (Robert Pattinson, la cui vera dote è la costanza: nel senso che ha la stessa espressione nel pieno dell'azione e una volta morto con gli occhi sbarrati). Un inseguimento privo di qualunque traccia di montaggio alternato sugli inseguiti. L'apoteosi della sproporzione rivelata nelle ultimissime inquadrature.

Il viaggio di Pearce e Pattinson utilizza la strada come un tessuto connettivo che conduce alle soglie dell'inferno per poi virare decisamente verso un barlume dissonante di tardiva umanità. Di un'umanità sopravvissuta che non mira a una rinascita ma che prende semplicemente coscienza di una fine già segnata dal tempo e dai tempi. Tempo individuale e tempi sociali. Nulla da perdere e ancor meno da guadagnare. Accenni di trasformazione dei personaggi si agitano all'interno dell'abitacolo.

L'involontariamente enigmatico Pattinson muta progressivamente atteggiamento nei confronti del fratello che lo ha lasciato sanguinante solo grazie alla vicinanza (maieutica?) al volante di Pearce, mentre questi è solo un'ombra del passato in cerca di vendetta: parla poco, pensa tanto, agisce solo quando deve e probabilmente, se non ne fosse obbligato per scoprire dove siano i ladri della sua auto, non porterebbe il suo ospite con sé.

Il viaggio sulla strada dei due procede su una superficie vellutata, già indirizzata, su un percorso che pare un nastro trasportatore, il cui termine è iconograficamente la baracca della strage, simbolicamente la percezione dell'ingresso definitivo nel nulla. Pearce guida, ma potrebbe anche non guidare; Pattinson parla e solo Dio sa quanto meglio farebbe a tacere.