Sangue, proiettili e ottani

Sangue, proiettili e ottani

The Salvation, l'ipertesto

Sangue e proiettili. Derivativi. Come sempre, ancora più di sempre.

Se questa rubrica vi raccontasse di una musica di ascendenza morriconiana in concomitanza dell'arrivo di un treno in una stazione di legno, a cosa pensereste? A C'era una volta il West?

O di un paese abitato da cittadini vili e delatori, pronti alla complicità con il villain per timore delle sue ritorsioni? A Lo straniero senza nome?

E se la rubrica vi buttasse lì la presenza di una ragazza liberata dopo anni dalla prigionia degli indiani? A Cavalcarono insieme o, molto più probabilmente, a Sentieri selvaggi?

E se un personaggio chiedesse di fare silenzio per seguire i passi di una minaccia che si sta per materializzare sul tetto, non vi verrebbe in mente una sequenza simile durante il rumoroso passaggio delle truppe sudiste in rotta ne Il buono, il brutto, il cattivo?

E se vi fossero ripetutamente evocati movimenti in avanti della macchina da presa a oltrepassare una porta che dà su uno scenario esterno, probabilmente gridereste: «facile anche questa!».

Senza contare le prospettive dilatate sulla Main Street che potrebbero ricordarvi Pronti a morire e la proliferazione di pozzi di petrolio che da sempre simboleggiano la fine dell'epopea western e l'inizio della modernità, che avrete sicuramente visto, tra gli altri, ne L'uomo dai sette capestri.

Sembra che questa rubrica oggi nutra una particolare vocazione antologica. E invece non è così. Sta parlando di un solo film. The Salvation, western danese, britannico, sudafricano, belga, svedese girato in Sudafrica (una bella accozzaglia globalizzata), diretto da Kristian Levring e scritto da Anders Thomas Jensen, l'Age e Scarpelli (in una sola persona) del cinema danese (regista anche di quella sorprendente crasi fra Dreyer e Tarantino che è Le mele di Adamo).

The Salvation non è un film, ma una silloge causale di tutti i film. Tutt'altro che una storia originale (come può esserlo un western?, si chiede affranta questa rubrica), ma un campionamento di alcune tra le più celebri situazioni di tutta la storia del genere messe in sequenza per formare un film di senso compiuto grazie al significato parziale proveniente a vario titolo da altri film.

Né citazione, né omaggio, né riferimento come tutti i western ormai inevitabilmente fanno da tempo immemore. Con una certa evidente continuità almeno da quando si parla di epoca postmoderna. O in epoca postmortem, per quanto riguarda specificamente il western.

The Salvation va oltre. E si pone come ipertesto dell'intero genere, di cui non assume i semplici meccanismi, logica che rimarrebbe ancorata a una normale codificazione seriale (di una serialità d'antan), ma si appropria dei singoli momenti della Storia per creare la sua storia. Elementare, forse anche banale (essì, la solita vicenda di vendetta e riscatto in una microsocietà ancora lontana dalla legalità, sai che novità), ma The Salvation è probabilmente uno dei primissimi western assemblati: un pezzo preso di qua, un pezzo preso di là, sistemati uno dietro l'altro per creare la propria storia da raccontare (e alcuni dei pezzi sono quelli citati sopra). Niente di memorabile, già visto anche questo: si tratta solo del mostro di Frankenstein incarnatosi digitalmente in un film. Nemmeno horror. E il film, in sé, nonostante l'operazione sottrattiva (nel senso mariuolesco del termine), è fondamentalmente innocuo. Semplicemente scorre.

Avanti un altro.