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(dis)Sequenze#19 - McDonagh e Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Il cinema di Martin McDonagh si nutre di ossessioni. Che tornano ciclicamente e attorno alle quali si condensa una sceneggiatura perennemente in bilico tra l'iperbole della black comedy e la crudeltà non riconciliata del mélo.

Che si tratti di una Bruges dagli sfumati contorni onirici, di una Los Angeles periferica che dissolve nello stesso deserto lunare cantato dagli U2 quando ancora non erano la parodia di se stessi o della collerica contea irlandese di Connemara, sfondo di quasi tutte le sue commedie, su queste ossessioni s'innerva una scrittura chirurgica che aspira al paradosso. Perché ottiene il suo sorprendente equilibrio partendo dal nucleo di uno smarrimento dei valori pressoché totale. Dovunque, perché non si tratta di una questione politica, anche se vedendo Tre manifesti a Ebbing, Missouri potrebbe sembrare (malgrado i riferimenti alla violenza della polizia, la sceneggiatura è stata scritta otto anni fa. Ma forse la violenza della polizia negli States è sempre attuale).

In Belgio, in Irlanda, in California e a Ebbing, si ride e si soffre intorno al vuoto originato dai frammenti di un mondo imploso su se stesso, nel quale lo spettro della definitiva caduta si alterna con barlumi sfuggenti di un'inaspettata grazia cui tendere per dotarsi almeno del miraggio di una possibilità. McDonagh scandisce il dramma a colpi di riff punk tenendo con facilità un equilibrio diventato, al terzo film e mezzo, assolutamente naturale, soprattutto se già il mezzo, l'esordio, era stato premiato con un Oscar. E a Ebbing, Missouri, sud rurale degli Stati Uniti dove tre cartelli messi in fila con la specifica accusa di un crimine irrisolto diventano un evento che condiziona l'intera vita del paese, la posta in gioco non è tra il giusto o lo sbagliato, tra il bene e il male, bensì tra l'inconsapevolezza e la sopravvivenza, tra il propendere e il lasciarsi morire.

I termini della questione, fin dal primo cortometraggio Six Shooter, sono sempre stati questi. E McDonagh lavora per sublimarne la sintesi. Si pensi soltanto al finale, inconsueto, incompiuto, apparentemente molto vicino a un'irresolutezza Seventies, e invece del tutto personale. Sospeso, come le vite dei suoi personaggi, alla perenne ricerca di un qualcosa di indefinito, perché lo scopo, più che giungere a compimento, deve tendere continuamente, facendosi spazio tra la compressione del dolore e i soffocanti sensi di colpa.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri non è la storia di una donna e della sua lotta, perlomeno come la si racconterebbe a Hollywood, neanche se quella donna è Frances McDormand, sul cui volto si tratteggia la muta tenacia di chi conosce la sconfitta pur senza rassegnarsi ad essa. Non è neanche il racconto della conversione di un vice sceriffo razzista e smarrito (fantastico il movimento di macchina circolare intorno alla testa di un Sam Rockwell intento ad ascoltare gli Abba in cuffia e a osservare puerilmente un animaletto di plastica, mentre intorno, nell'ufficio, indicativamente fuori fuoco, si reagisce a un dramma appena accaduto).

Tre manifesti è solo la storia di una lacerante sofferenza, della sua rabbia, di uno sfogo e di una ragione che non si riesce ad attribuire. Perché ognuno possiede la sua e nell'ambito di una tragedia umana che spesso si armonizza con i tratti di una commedia amarissima, ha la stessa legittimità di quella degli altri. Così, tra la colpa e la sua mancata remissione, si manifestano i soliti fantasmi di McDonagh, che fanno da sfondo e da motore alla vicenda, di qualunque vicenda si tratti e a qualunque latitudine si svolga. I nani, emblema di un'infanzia deformata e perduta, i riferimenti più o meno marcati a una metadiscorsività che aleggia sempre come chiara esibizione di una costruzione consapevole, gli animali sui quali si rispecchiano le frustrazioni e le colpe umane (in Tre manifesti un giovane cervo che fornisce il fugace lampo lirico di un'illusione), il nuovo rimando – dopo In Bruges – a A Venezia…un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg.

E su tutto, come un mantra assillante, un'oscura pulsione di morte che permea l'azione di ogni singolo personaggio ed è plasmata in tutte le possibili declinazioni. Perché, laddove l'autorealizzazione di sé è destinata al fallimento, la tensione distruttiva, dopo aver tentato tutte le strade percorribili, si rivolge anche verso se stessi.

Permettendo a McDonagh, ancora una volta, di mostrare in questo viraggio al nero tutta la qualità della sua scrittura.