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(dis)Sequenze#30 – The Irishman: i gangsters di Scorsese in tre atti

Martin Scorsese e i suoi gangsters, one, two, three.

Ascesa e caduta, Rise and Fall: un autentico mantra per il gangster movie, fin dagli albori.

A causa del Codice Hays, essenzialmente, che tutto regolava e da cui tutto promanava, anche i colpi di genio per aggirarlo.

Non poteva esserci, fin dagli anni Trenta, un’ascesa senza la necessaria e obbligatoria caduta, l’unico modo per far comprendere al popolo depresso, in tempi di Grande Depressione, che il crimine, comunque, non avrebbe pagato. Mai. Che tu fossi Rico Bandello, Tom Powers o Tony Camonte: Don’t try this at home, old boy, Forget it, diceva l’istanza normatrice che a Hollywood vegliava su buone e cattive coscienze.

Ascesa e caduta è così diventata la struttura per eccellenza. Si sale e si precipita, nessun acme senza la susseguente katastrophé, si sa.

E ovviamente anche Scorsese lo sa. I suoi gangster movie precedenti erano tutti orchestrati sulla quella stessa struttura. Si pensi a come iniziano procedono e finiscono Quei bravi ragazzi e Casinò.

Ma che dire se The Irishman, il suo Opus magnum, illustrasse la caduta trasversalmente, mostrandola come compimento definitivo del trittico e non solo in relazione al singolo film? Se si trattasse del terzo atto, l’ultimo, di una parabola che sfrutta lo stesso procedimento visivo, in particolare il travelling che s’introduce negli ambienti esplorandoli in perfetta continuità?

Come se fosse una sorta di discorso interrotto e ripreso altre due volte nell’arco di quasi trent’anni.

Primo atto: questo è il mio regno (Quei bravi ragazzi).

Il gangster entra in un locale à la page con la sua ragazza. Entra dalla porta di servizio, mostrando la sua padronanza dei luoghi, il suo libero accesso. Dispensa denaro, saluta chiunque e da chiunque è riverito. Arriva ultimo ma ottiene la sua posizione privilegiata per assistere allo spettacolo dello stand up comedian a pochi passi da lui, generando la lecita curiosità della sua donna circa l’attività che conduce. Edilizia, risponde lui. Imbianca case, probabilmente, come l’Irishman del terzo atto. Un delegato del sindacato, aggiunge, forse di Jimmy Hoffa, sempre come l’Irishman Frank Sheeran.

Secondo atto: la fluidità torrentizia del denaro (Casinò). L’essenza del gangster è il potere e il potere si dimostra con il flusso di denaro che muove. Il commesso del potere entra con la sua valigetta nella stanza dove il denaro si produce e si conserva, luogo a cui non ha accesso neanche il gestore del casinò; prende i soldi e silenziosamente come è entrato esce dalla stanza, esce dal casinò e trasporta i soldi laddove il potere li attende.  

Terzo e ultimo atto: la mesta strada che conduce alla fine (The Irishman). La macchina da presa non segue nessuno ma s’inocula ugualmente. Si muove lungo un corridoio, popolato di infermiere, simboli religiosi, anziani in carrozzella. Si affaccia in vani con poltroncine, tra gente che chiacchiera amabilmente senza l’euforia mostrata nel locale del primo atto, si muove come alla ricerca di qualcuno, compie un paio di deviazioni fino a quando arriva in prossimità di un uomo anziano, di spalle, sulla sua sedia a rotelle. I più scafati sapranno certamente che quell’uomo apparteneva alla cricca del gangster del primo atto ed era anche il gestore del casinò che vedeva entrare e uscire il commesso del potere dalla stanza in cui i contabili verificavano il denaro. Adesso però non sembra più così deciso e minaccioso, anzi. Tutti quei preti, quelle madonne e quelle infermiere incontrate lungo l’ennesimo travelling fanno pensare più alla fine di un percorso, a un’eventualità di resipiscenza che alla spocchia del potere o al demone del denaro. Un ricordo di ciò che fu l’ascesa e il suo punto più alto.

Rise and Fall, ancora una volta. Attraverso uno stesso movimento di macchina, lungo esattamente ventinove anni. Un percorso che si compie. Forse definitivamente.