(dis)Sequenze

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(dis)Sequenze#7 - Il calcio visto (d)al cinema

Odore di Europei e anche di Copa America del Centenario, che mai come quest'anno adotterà i frustrati dell'Italia pallonara, destinata - secondo i soliti beninformati - a una precoce uscita dal tabellone. Questo, ogni due o quattro anni, a seconda delle attese, è l'unico momento in cui, per i cinefili dal naso rivolto all'insù, appaia lecito accostare la nobiltà del cinema al sudore blasfemo del pallone. L'occasione la offre Pelé, la pellicola degli Zimbalist Bros. (prodotta addirittura da Brian Grazer) che racconta gli albori dell'epopea del calciatore più grande di tutti i tempi (o del secondo, se si è nati a sud di Roma, oppure del terzo o del quarto se si è nati nel nuovo millennio).

E Pelé, il film, ancora una volta, dà ragione a chi sostiene che il calcio, al cinema, sia irrappresentabile se non snaturandolo e facendolo apparire uno sport fatto di movimenti grotteschi, bizzarri, sganciati dalla realtà effettiva, anche quando, come in questo caso, tutte le sequenze mirino a replicare fedelmente le reali azioni svoltesi sul campo.

Sarà perché, e lo dico parafrasando Bazin a proposito del western, «il calcio ignora quasi il primo piano, usa pochissimo il piano americano mentre predilige la panoramica e il ‘travelling’ che annullano i limiti dello schermo e restituiscono allo spettatore l’immensità dello spazio», sarà (anche) per questo, ma il calcio visto al cinema lascia sempre piuttosto perplessi. Gli amanti del solo cinema perché riottosi verso la materia narrata, gli appassionati di entrambi perché non vedono mai realizzarsi una vera sintonia spettacolare. E un paragone è possibile solo se i due aspetti si confrontano attraverso il filtro del supporto: il cinema in sala (o a casa o su qualunque altro device che permetta l'isolamento - ma il discorso è ampio e articolato, come spiega Casetti nel suo ultimo lavoro, "La galassia Lumiére") e il calcio in televisione, perché allo stadio non si parla più di visione ma di reale partecipazione, in una sorta di rituale antropologico ed emotivo.

Così come il western, di cui ci siamo serviti, il calcio è essenzialmente azione. Anzi, lo è ancora più del western: se osservo il primo piano di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, ne apprezzo il dubbioso smarrimento prima che l'ora si compia e la minaccia piombi sul paese e sul suo recentissimo matrimonio, e tale consapevolezza mi guiderà nella pienezza della suspense e del pathos quando arriverà il redde rationem finale nella Main Street, che, a quel punto, posso anche gustarmi lungo un'ideale linea diagonale posta in campo medio.

Mentre, durante una finale di un importante trofeo in cui mi senta profondamente immedesimato, se dovessi vedere un primo piano di un giocatore della mia squadra del cuore teso nello sforzo di pennellare l'ultimo passaggio o di liberarsi dall'avversario per sferrare il tiro in porta, acquisirei una coscienza maggiore sull'esito dell'azione? Oppure lo avvertirei come un'intrusione particolarmente fastidiosa a causa della frantumazione della linearità percettiva che da sempre garantisce la piena partecipazione e il divertimento del tifoso? È indubbio che in televisione un piano ravvicinato durante l'azione sia un evento irrealizzabile e che l'espressione dei giocatori in campo è osservata quasi esclusivamente durante le pause, siano esse la predisposizione di un calcio di punizione, la scelta dell'angolo su un rigore, la reazione a un gol sbagliato clamorosamente o il dolore dopo un fallaccio subito. Un aspetto ovvio che il cinema sorprendentemente ignora e che deve necessariamente ignorare. Il film punta a stimolare l'emozione attraverso la narrazione ma l'inserimento di un primo piano in un momento particolare dell'azione non è né narrativo, né particolarmente espressivo, appare solo gratuito. Tra calcio e sua versione cinematografica esiste una differenza inconciliabile nella collocazione delle inquadrature all'interno della catena emotiva delle immagini. Come in molti altri casi precedenti, anche in Pelé giunge il momento in cui l'azione decisiva, quella che lo consegnerà alla storia del calcio, lui giovincello appena diciassettenne tutto istinto e movenze feline, si blocca un istante in un primo piano che nel cinema pare sempre necessario perché rappresenta una sorta di catalisi barthesiana tra il prima, in cui i sogni possibili rischiano di essere solo velleità, e il dopo, momento nel quale la speranza si avvera e l'alternativa si chiude con successo.

Il primo piano, essenziale per lo sviluppo passionale del racconto, nella rappresentazione del calcio è un cortocircuito che si allontana dall'interpretazione emotiva della realtà per accedere esclusivamente ai criteri diegetici. È il punto in cui il cinema cerca di superare l'immediatezza dell'emozione calcistica creando una divaricazione irrimediabile, più vicina alle iperboli di Holly e Benji che a qualunque partita anche di serie inferiore. Pelé si spinge addirittura oltre, collegando una stupenda azione corale da gol attraverso rigidi (e inverosimili) raccordi di sguardo tra i vari giocatori brasiliani, mentre la palla è ancorata tra i piedi di Vavà che si appresta a saltare il suo uomo per fornire il passaggio smarcante. Azione sullo sfondo, macchina da presa che va sui giocatori in attesa, immobili a guardarsi l'uno con l'altro e incuranti dell'azione, in un'ideale linea offensiva pronta a colpire, che anticipa, di fatto, la scansione funambolica di passaggi che condurrà al primo gol di Pelé, quello con il tiro sferrato dopo uno stop di petto al limite dell'area e un sombrero per eludere l'avversario. Nemmeno i cartoni animati giapponesi e i monaci Shaolin avevano osato tanto (foto 2 - 3 - 4 - 5 - 6).









Di contro, e pare di condurre un'analisi bipolare, l'impossibilità di tradurre cinematograficamente il calcio non è soltanto una faccenda di primi piani. Che cos'è il calcio visto dalla prospettiva televisiva, a ben guardare? Uno scenario in cui si crea un profondo legame dialettico tra il geometrico dello spazio e il drammatico dell’azione, la cui suprema sintesi è la spettacolarità della visione del gioco. Seppur nel film dei fratelli Zimbalist la tecnica mostrata dagli attori sia molto più elevata di quella di altre pellicole sul calcio (Fuga per la vittoria escluso, ovviamente), uno degli elementi che manca, parimenti a tutti gli altri film, è il giusto rapporto tra superficie e azione, tra la necessaria ampiezza spaziale e il dinamismo dei movimenti che erodono progressivamente quello stesso spazio. In pratica: il calcio ha uno sviluppo dell'azione troppo vasto perché sia racchiuso in uno schermo cinematografico. La convinzione di chi realizza film sul calcio è sempre stata quella di operare un ingrandimento prospettico che puntasse all'evidenza a scapito dell'equilibrio complessivo: una specie di sineddoche visiva pronta a ritagliare la singola abilità del movimento dalla coralità dell'azione concertata. In Pelé ciò è meno evidente per la succitata bravura tecnica degli attori impiegati, ma per quanto un attore si sforzi, e soprattutto se deve interpretare una squadra sopraffina nei fondamentali come la Seleção brasiliana del '58, il dribbling, il palleggio, la finta, il tocco di fino, non saranno mai così spontanei e immediati come nella realtà sportiva (e spesso, soprattutto nel passato, l'effetto, risibile, è dato da un avversario che si scansa mentre viene saltato in imbarazzante scioltezza). Si tratta di un iporealismo che nuoce alla credibilità del cinema, perché lo vincola a un aspetto avvertito quasi sempre come estraneo e innaturale. E nuoce irrimediabilmente alla visione cui siamo abituati del calcio, più estesa, armonica, partecipativa, pronta a erompere in un urlo comunque liberatorio dopo un gol anche di fronte all'eventuale assenza di spettacolo tecnico e tattico. Un'assenza, invece, che in un film sarebbe considerata solo il difetto di una messa in scena sciatta e inadeguata.