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Captain Fantastic: where is the ghost of Tom Joad?

C’è una discussione accesa in cucina: da una parte una coppia borghese come tante altre, dall’altra un fascinoso barbone (il fratello della donna) dalle idee fin troppo chiare. L’argomento è l’educazione dei figli. Il barbone ne ha sei, che hanno appena perso la madre e sono cresciuti secondo regole imposte dal padre: niente scuola, ma un continuo addestramento di vita; niente debolezze di fronte alla società dei consumi, ma un sostentamento autogestito in contrapposizione a un mondo considerato marcio. La coppia borghese ne ha due, allevati seguendo una normalità impigrita, studenti affogati nella routine, che strabuzzano gli occhi davanti ai cugini selvatici che non conoscono le marche delle sneakers o non hanno mai giocato a un videogame. Le posizioni genitoriali sono inconciliabili, le idee di formazione contrapposte.

Il barbuto, allora, decide di giocare d’attacco e chiama i due nipoti adolescenti. E gli chiede del Bill of Rights, i dieci emendamenti della Costituzione americana, cardini politici e culturali degli Stati Uniti. Il primo crede che sia qualcosa che ha a che fare con un’idea di costo (un bill, appunto); il secondo, scrollando le spalle, si lancia in un’ardita ipotesi: deve essere un documento governativo che tratta di diritti dei cittadini. Insomma, ci si avvicina, e questo fa tirare alla madre un sospiro di sollievo. Ma il barbuto ha colto nel segno, ha colpito il punto debole degli avversari, proprio come con le prede che insegna a cacciare ai figli. Allora sferra il colpo mortale: chiama una delle figlie («ah, per inciso, ha appena compiuto otto anni») e gli fa la stessa domanda. E lei, implacabile, inizia a recitare a memoria gli emendamenti. Ma questa umiliazione, questa dimostrazione di manifesta superiorità, non basta al capobranco, che anzi si lamenta di una semplice enunciazione. Al che la bimbettina, come stimolata a colpire, inizia a disquisire sulle implicazioni del Bill, sulla sua importanza, sul peso fondativo della Carta e persino sulla sua applicazione in recenti sentenze della Corte Suprema. Insomma: sfoggia capacità mnemoniche, interpretative, analitiche. Scacco matto. La povera donna, dopo aver assistito attonita a questa lezioncina impartita sadicamente sulla propria famiglia, getta la spugna: ok, basta così, abbiamo capito. Il barbuto allora, come dopo un trionfo agonistico, dà il cinque alla bambina e se ne va, con la certezza incrollabile di avere demolito un altro pezzetto del cadente establishment americano.

Questa scena, la più insopportabilmente e fintamente radicale del film, è collocata nell’esatto centro di Captain Fantastic di Matt Ross e ne esplica pedissequamente, con una violenza assai meno raffinata di quanto sembri, le contrapposizioni. Il film si srotola, nascondendo la propria natura tetragona dietro una risibile problematicità e un finale di goffa mediazione, seguendo un copione di esplicito manicheismo. Inizia con un addestramento alla caccia in cui la natura primordiale dell’istinto (e l’idea preistorica di branco, alla Signore delle mosche) viene ricondotta a una sorta di convivenza panteistica con la natura stessa, anche nei suoi lati sanguinari: un frullato semplificato di suggestioni che vengono dai padri del trascendentalismo nordamericano (Emerson e Thoreau su tutti) per arrivare fino a Jack London.

Fin lì Captain Fantastic si limita a descrivere una bizzarra comunità autosufficiente, allenata per combattere i pericoli esterni di un mondo che ci si ostina a non voler conoscere. Ma è quando i nostri protagonisti, costretti a uscire dal loro rifugio dorato per ricongiungersi al corpo della madre, sono costretti a intraprendere un collettivo “viaggio dell’eroe” e a mescolarsi nel mondo, che la rudimentale ideologia del film esplode. Certo, a tratti i giovani si dimostrano inadatti a gestire emozioni e rapporti umani e a volte il padre/padrone mostra sporadiche crepe, ma le rotaie ideologiche del film di Ross non permettono scarti se non millimetrici: il materialismo compulsivo della società americana non è emendabile se non attraverso una ribellione personale, il familismo gerarchico si combatte attraverso la creazione di una überfamiglia, in cui vigono barlumi di paritarietà che in realtà nascondono una teocrazia assoluta del padre, una figura gerarchica talmente esclusiva da far tremare le vene ai polsi.

Nella scena del Bill of Rights questa scelta di campo diviene irresponsabile: il bene e il male, il giusto e lo sbagliato si definiscono in posizioni nette e chiarissime, che non temono né possibilità di smentita né, evidentemente, hanno coscienza di un senso del ridicolo. La scuola borghese è descritta – ontologicamente – come fabbrica di ignoranza, rappresentata da giovanotti dai capelli tagliati a spazzola e sguardo ebete, teatro di un imbarbarimento collettivo perpetrato a suon di videogiochi e cultura del logo. La zazzera bionda e selvatica – che già rimanda a un generico senso di libertà – della nanerottola cresciuta (ammaestrata?) nella libertaria educazione paterna, ispira una ricattatoria simpatia e il suo discorso antilobbista suscita senz’altro l’ammirazione sospirosa degli innamorati della controcultura for dummies.

In realtà l’ideologia che il film distilla rozzamente è insopportabilmente elitaria, irresponsabilmente antidemocratica e, più banalmente, intimamente reazionaria. Non basta infatti festeggiare il Noam Chomsky Day per ergersi a paladini delle libertà se poi ci si schiera in maniera così smaccata contro la scuola (e la società) paritaria inneggiando a un rifugio familista da oligarchia pauperista. Gli automi della famiglia Cash non hanno pietà che per sé stessi, si amano solo tra loro, disprezzano il prossimo in cui non sanno mai riconoscersi. Che nostalgia per i tempi in cui la ribellione alle ingiustizie della società si specchiava negli occhi di Tom Joad, nel suo furore davvero umanitario e universale. Qui i germi di rivolta affogano sotto trucco e parrucco, sono abiti indossati con alternativismo stiloso, figli di mode culturali neanche troppo ben digerite. No, questi nuovi illuministi dell’oscurità non meritano un mondo migliore, ma solo l’intervento dei servizi sociali.