Luca Ferri

Abacuc

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Girato in Super8Abacuc potrebbe essere letto come l’ultimo reperto di un dopo-Storia a cui siamo destinati. Ed è un reperto cinematografico quel che rimane, che a sua volta emerge da un immaginario scarnificato e raggelato, privo di qualsiasi vitalità. In un’epoca in cui il godimento presuppone la ripetizione senza fine degli stessi gesti, delle medesime frasi, di identici meccanismi, quel che resta è una dispersione lenta ma inevitabile, un processo entropico. Quando tutto sarà esaurito giungerà la fine: eppure, come per il paradosso di Achille e la tartaruga, il nostro tempo sembra non dover mai arrivare a conclusione, ma perpetuarsi in un moto ridicolo. D’altra parte, “la situazione è tragica ma non è seria” (Ennio Flaiano).

Gloria Zerbinati

 

 

Abacuc di Luca Ferri, poema per immagini e suoni che canta l’esistenza dell’eroe eponimo, un omaccione di circa duecento chili di incredibile potenza espressiva. Corpo-oggetto che a dispetto del peso si libra leggero all’interno delle inquadrature, raccontato con il linguaggio e il bianco e nero tipici del cinema muto e con la provocatorietà dei film surrealisti. Super8 in mano, Ferri inquadra Abacuc ponendolo al centro di cadre al limite dell’onirico esaltate da un montaggio e un commento musicale di rara efficacia. Quattro anni di lavoro ossessivo per dare forma a un film che sfugge alle classificazioni. La definizione più vicina potrebbe essere quella di sperimentale, ma è comunque limitante. Abacuc è un film inclassificabile teso a recuperare un linguaggio di grado zero che permetta al cinema di azzerare le stratificazioni di decenni per tornare allo stupore e alla purezza delle origini. Certo, non è un’opera per tutti. Ma, superato l’impatto iniziale, si rivela un’esperienza visiva emozionante.

Angela Prudenzi