Maria Arena

Gesù è morto per i peccati degli altri

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Il quartiere di San Berillo, a Catania, è stato per anni «il più grande mercato del sesso povero in Europa», e nell'ultimo periodo sembra aver catturato l'interesse del cinema documentario italiano: prima I fantasmi di San Berillo di Edoardo Morabito (2013) e ora Gesù è morto per i peccati degli altri di Maria Arena, presentato all'edizione 2014 del Festival dei Popoli di Firenze e proiettato in seguito in poche sale.

La drammatica storia di San Berillo viene riassunta nell'incipit poetico-musicale del film: il quartiere è stato da sempre considerato «una ciste purulenta da estirpare, una pustola infetta, un corpo estraneo, un bubbone maligno [...] che andava raso al suolo e senza discussioni». Il primo sgombero di San Berillo risale al 1958 («Boom boom boom, pioveva nel centro di Catania come un bombardamento, un grande esperimento di trasferimento di massa di 30mila cittadini e passa, dal centro della città alla periferia, come si fa in democrazia»), seguito in tempi più recenti dal «grande boom boom boom del 2000, la notte dell'assedio del 13 dicembre» quando «poliziotti, finanzieri, elicotteri e carabinieri murarono coi mattoni, uscio ad uscio, ingressi e accessi, porticati e portoni». Così oggi, in questa piccola zona del centro catanese, resta uno «sparuto e residuale gruppo di transessuali e puttane, una comunità solidale di femmine di corpo e di spirito, vestali e custodi dei resti rimasti».

Proprio questa «comunità solidale» è la protagonista del film scritto e diretto da Maria Arena: Franchina, Meri, Alessia, Marcella, Wonder, Totino e Santo vengono mostrati nella lenta quotidianità di San Berillo, scandita dalle feste religiose stagionali. La religione rappresenta un punto fermo nelle vite di queste persone, e di riflesso anche nel documentario. Il titolo, in questo senso, è naturalmente molto significativo e, in base alle parole pronunciate dalle protagoniste del film, da intendersi in senso del tutto positivo: la morte di Gesù redime i peccati dell'umanità, di tutta l'umanità. Franchina e le sue amiche si sentono amate solo da Cristo, in una città che fin dalla nascita le ha rifiutate e fatte sentire «carne da macello». Il titolo, così ci spiega la scritta che introduce i titoli di coda, viene però da un verso di Patti Smith – «Gesù è morto per i peccati degli altri, non per i miei» («Jesus died for somebody's sins, but not mine», da Gloria) – di significato opposto: quella della cantante è una rivendicazione di indipendenza e responsabilità individuale, e di rifiuto dell'ingerenza divina, che non trova alcun riscontro nel documentario.

Il canale YouTube di Maria Arena propone un breve video in cui «alcuni protagonisti del film spiegano il senso di questo titolo» e anche lì si ribadisce che la missione di Gesù «era quella di salvare noi peccatori dal peccato, e il peccato è la mancanza d'amore» (Franchina) e che «Dio forse ci ama più delle altre persone che sono normali o bon ton» (Marcella). In un secondo video, la co-sceneggiatrice Josella Porto aggiunge «Gesù è morto per i peccati degli altri... e non per i suoi», e la stessa Arena conclude dicendo «Incontrando queste persone ho capito che Gesù non è morto, ma vive nelle loro vite». Perché inserire allora quella citazione apparentemente fuorviante? O meglio, una volta inserita, perché non usarla davvero? Perché non farne un autentico spunto di riflessione sul valore della fede, anche e soprattutto della fede di chi, in Dio, cerca conforto dalla sofferenza e promessa di riscatto come le «vestali» di San Berillo? L'unico che tenta di far leva sulle capacità dell'individuo, invitando Franchina a ragionare sulla possibilità di una «vita rinnovata» (sia pure «nella fede») e ricollegandosi così in maniera molto blanda alle parole di Patti Smith, è il giovane fotografo che vediamo in azione nella seconda parte del film. Lei però risponde: «Se nessuno mi dà un'alternativa, come faccio a cambiare? Se avessi una persona, un amico, che mi facesse sentire la sua presenza, forse cambierei. Ma da soli è impossibile». L'accettazione passiva e l'incapacità di immaginare qualcosa di diverso si ripresentano anche nel modo in cui Franchina e le altre parlano della prostituzione: da una parte c'è l'orgoglio di essere se stesse («Oggi sono la signora Meri, non il signor Giuseppe. Ho un figlio, una nuora [...], mi trovo bene») e un pragmatico apprezzamento verso un mestiere che, soprattutto in giovane età, ha consentito di ottenere contatti sessuali e soldi facili, dall'altra però c'è la delusione verso un ambiente sociale che ha negato loro ogni altra strada lavorativa, attraverso la discriminazione, il rifiuto e la vergogna di riconoscerle per ciò che erano.

Gesù è morto rappresenta San Berillo come un luogo chiuso (non vediamo il resto della città né ci viene fornito un punto di vista esterno) e dimenticato, un problema che si sa come affrontare, se non con sgomberi e un impegno istituzionale di facciata (nel film le protagoniste seguono un corso per badanti e assistenti infermieri che non sembra produrre frutti concreti). L'immagine che emerge dal film di Maria Arena è quella di un quartiere povero, composto da edifici in rovina ma non privo di scorsi autenticamenti belli, un quartiere placido, o forse solo stanco, abitato da persone solidali e legate da rapporti amichevoli (non ci vengono mostrati litigi né tensioni tra le prostitute). Un'umanità buona, insomma, nella quale non troviamo tracce di rabbia o violenza, malgrado l'isolamento e le condizioni non facili nelle quali ha sempre vissuto. Lo sguardo della regista è partecipe: niente domande dirette o interviste canoniche, solo dialoghi colti nel loro farsi. Qui il documentario ha valore di testimonianza, di occhio aperto su una realtà vicina ma poco conosciuta. La volontà di mantenere un approccio discreto e rispettoso, però, rende il film fin troppo semplificato e a tratti superficiale, specie sul discorso religioso che dovrebbe essere centrale. Si perde così l'occasione di scavare più a fondo nei non detti e in ciò che è nascosto, ma che una macchina da presa più decisa avrebbe potuto rendere visibile. Il sentimento religioso che anima le donne di San Berillo è un meccanismo di difesa, un'eredità culturale e familiare propria del luogo d'origine, o autentica fede adulta e ragionata? A un certo punto le sentiamo discutere di quanto conti la bellezza nel lavoro della prostituta: quali sono i loro riferimenti estetici, che si riflettono nella scelta del trucco, degli abiti? Come vivono il rapporto con il proprio corpo e con gli effetti provocati dall'assunzione di ormoni ai quali accenna Meri? Come vedono se stesse? Come vengono viste dai clienti e dalle amiche? Il rifiuto al quale la città di Catania le condanna è anche, o soprattutto, un rifiuto visivo? Domande importanti, che il film indirettamente suggerisce, ma non riesce a penetrare con la necessaria lucidità. L'osservazione del soggetto è fondamentale, e qui di sicuro ben riusciuta (anche grazie a un montaggio attento), ma il passo ulteriore, per un documentario, deve essere quello di scardinare il reale o riplasmarlo in modo nuovo. Attraverso il cinema.

Valentina Alfonsi