Francesco Clerici

Il gesto delle mani

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Si può scegliere di seguire la nascita di una scultura come se si stesse illustrando le tappe scandite di un manuale, accompagnando le immagini con frasi che rendano conto a chi osserva del senso (tecno)logico del percorso in via di esecuzione. Oppure si può scegliere di immergersi nel processo che ci conduce alla realizzazione finale dell’idea di partenza, senza l’appoggio di spiegazione alcuna, semplicemente affidandosi alla successione delle immagini che, con la loro evidenza di superficie, in realtà testimoniano del mistero “creativo” celato dentro ogni forma di produzione artistica.

Quando – come ne Il gesto delle mani – la strada prescelta è la seconda, per l’osservatore si dissolve in fretta la linea di separazione tra il responsabile dell’idea di partenza e chi esegue poi i gesti che la trasformeranno nell’opera conclusa.

Vediamo in apertura Velasco Vitali, lo scultore, che dà gli ultimi ritocchi all’“anima” di cera di ciò che sarà restituito in bronzo al termine del percorso: ha la stessa concentrazione calma e determinata che poi troveremo sui volti di chi lavorerà alla metamorfosi. Le mani di chi lo seguirà compiono – come le sue – gesti precisi, consapevoli, attenti: che manipolano materiali (cera, gesso, bronzo fuso, fuoco e acqua), plasmano, lisciano, piegano, scrostano, lucidano.

In questa coreografia accompagnata dai suoni generati dall’ambiente circostante – o, a tratti, dalle voci di chi non deve spiegare ciò che fa e costituiscono perciò soltanto un contrappunto alla sghimbescia sinfonia d’intorno – c’è, anzi, la forte probabilità di identificare i gesti del lavoro con l’atto artistico tout court e di attribuire la bellezza dell’oggetto che si manifesta nello svelamento finale quanto meno alla pari tra chi li compie e chi li ha commissionati. Le prime parole dell’affermazione di Giacomo Manzù che chiude il film sono, a questo proposito, categoriche: “La scultura non è un concetto. La scultura è il gesto delle mani.” Tutte le mani che partecipano alla nascita dell’opera, dunque, sono accolte e riconosciute in questo caso in una medesima dignità.

Seguire un percorso significa raccontare. Il gesto delle mani dunque è anche narrazione di una trama di eventi, che ci porta da un certo stato delle cose a un altro, seguendo un’evoluzione che si afferma come peripezia della materia: fatta di incontri, di prove, di attese, di tensioni e di traumi da superare fino al conseguimento dell’equilibrio finale nella forma consolidata del bronzo.

Gli elementi si alternano: terra, acqua, fuoco e aria dettano le condizioni per le quali il progetto si fa impronta, poi potenza fluida e bruciante, per trovare infine la sua giusta relazione con lo spazio come una formula realizzata di compiutezza. Di felicità compositiva.

Il racconto evolve nel silenzio, senza spiegazioni, senza indicazioni: e noi lo seguiamo di volta in volta domandandoci che cosa ci attende, quali funzioni rivestiranno gli strumenti che scorgiamo prima di vederli in azione e – temporaneamente – tranquillizzandoci nel considerare i risultati del loro intervento. Concretamente, siamo condotti attraverso il mistero del fare e della conoscenza che lo presiede e non ci appartiene. Inquadratura dopo inquadratura assistiamo a un disvelamento che si produce quasi sottraendoci perfino allo scorrere del tempo (lo cogliamo, di straforo, in un mutamento di condizioni atmosferiche esterne o nel cambio di una camicia…), che in verità sembra ridursi a una questione privata tra l’opera in corso e i suoi ostetrici, ai cui segreti noi dobbiamo accontentarci di essere ammessi soltanto come fortunati osservatori. Rassicurati dal dettaglio ricorrente delle mani al lavoro, impegnate in gesti antichi, che ci dicono tutta la forza e l’intelligenza racchiuse nella continuità del dialogo ideale tra presente e passato.

(Adriano Piccardi)