50 anni senza Flaiano

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Di recente, è caduto il cinquantesimo anniversario della morte di Ennio Flaiano. Scrittore, giornalista, drammaturgo, sceneggiatore, umorista e altro ancora, Flaiano non ha certo bisogno di presentazioni. «Sognatore con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole», nel mondo del cinema intrattenne un celeberrimo sodalizio con Federico Fellini, per il quale sceneggiò la maggior parte dei suoi massimo capolavori, ma scrisse anche per Blasetti, Emmer, Lattuada, Monicelli, Risi, Soldati e molti altri. Sulla sua collaborazione con Fellini, ma anche sulla commedia e sul viaggio, pubblichiamo uno stralcio da un ampio, completo saggio che Renato Venturelli, sul n. 221, gennaio/febbraio 1983, dedicò alla ricchissima attività di Flaiano nel mondo del cinema, fra sceneggiature, soggetti, critica eccetera (compresi i progetti mai arrivati in porto, come lo sfortunato Melampo). Saggio che raccomandiamo caldamente di leggere nella sua interezza.


Ennio Flaiano
La scrittura degradata

La commedia dell'intellettuale

Il lavoro di Flaiano nel cinema accompagna la nascita e l'evoluzione della commedia all'italiana. Ma non vi si mescola che occasionalmente: nonostante la sua intensa attività, e la sua tendenza alla satira di costume, Flaiano non può assolutamente essere considerato uno degli sceneggiatori della commedia all'italiana. Anche se i suoi temi appaiono spesso simili o contigui.

All'interno della sua serrata critica al convenzionale attuata nelle recensioni, la parte più ampia è costituita dall'identificazione o condanna del luogo comune, dell'uso ripetitivo di paesaggi o personaggi o soluzioni narrative. E la commedia all'italiana si concentra appunto sul rinnovamento e sulla ricodificazione secondo nuovi schemi dei “topoi” della vecchia commedia: i paesaggi che si fanno più concreti e realistici, i personaggi e le situazioni più pungenti e satiriche, eccetera. Ma nella sua attività di sceneggiatore, Flaiano non sembra particolarmente interessato (soprattutto nei primi anni) a un atteggiamento satirico nei confronti della società e del cinema italiano. Come invece intendesse l'uso del convenzionale, ce lo fa intravvedere in film come Roma città libera o Parigi è sempre Parigi, dove la circolarità dell'intreccio viene esibita in tutta la sua astrazione, e risolta sul piano dell'eleganza, dell'annotazione bizzarra, della satira non acre. E non è certo un caso se questa direzione è assai più evidente nel primo film, di cui è lui stesso autore del soggetto (ed è evidente la lezione dei maestri francesi, Clair su tutti), piuttosto che nel secondo, la cui paternità va in buona parte ricondotta a Sergio Amidei.

Flaiano & Fellini

La collaborazione con Fellini è senz'altro l'aspetto più noto del lavoro di Flaiano nel cinema. Iniziò in occasione di Luci del varietà (1950), per proseguire poi nella stesura dei film successivi: Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1956), Fortunatella (1958, diretto da Eduardo De Filippo), La dolce vita (1960), Le tentazioni del dottor Antonio (1961), Otto e mezzo (1963) e Giulietta degli spiriti (1965). Un rapporto lunghissimo, in pratica quindici anni senza interruzioni, che rende difficile un tentativo di identificazione dei singoli contributi. Fellini, poi, si sa che considera la sceneggiatura come una fase «odiosamente indispensabile», da risolvere ponendola «contro il film»: una fase che sta tra una confusa percezione del film e la sua realizzazione, un momento di provvisoria elaborazione letteraria per preparare una realtà narrativa e visiva inconfrontabile col ritmo letterario.

È stato detto più volte che lo scrittore avrebbe corretto in senso ironico la tendenza “tragica” di Fellini, provocando quegli abbassamenti di tono che impedirebbero al regista di affondare nel suo misticismo. Osservazione giustissima (per quanto tenga un po' in scarsa considerazione la vena grottesca e caricaturale dello stesso Fellini), ma quasi mai rivoltata nel suo meccanismo complementare: e cioè quanto, in questa collaborazione, la furia mitologica di Fellini possa aver funzionato come elemento trainante per le tendenze “accidiose” di Flaiano, che abbandonate a se stesse hanno spesso rischiato l'immobilismo moralistico, la banalità cronachistica dell'intellettuale “dimenticato dalla storia”. In un passo del racconto Adriano, Flaiano scrive che «non c'è niente di peggio di voler guardare da naturalista una vita che ha le sue miserie ma anche un segreto che si apre solo a chi vi partecipa fino in fondo». Ma a questa partecipazione la scrittura “fredda” di Flaiano si è quasi sempre sottratta, ricercando le zone più tormentate della dispersione ironica, o rischiando il puritanesimo del commento moralistico. La collaborazione con Fellini può invece aver offerto a Flaiano una forza espansiva su cui più fruttuosamente esercitare la sua straordinaria acutezza di osservatore. E la proclamata improvvisazione di Fellini sul set va tenuta in considerazione fino ad un certo punto, a sentire quanto dice Suso Cecchi D'Amico a proposito degli “attacchi di fegato” di Flaiano nel veder attribuito ad altri il merito del proprio lavoro: questo, ferme restando tutte le distanze tra i due, a partire da quella mitologia della memoria che è un cardine dell'opera di Fellini ed appare invece sostanzialmente estranea a Flaiano.

I Fogli di Via Veneto, che aprono l'edizione postuma della Solitudine del Satiro, sono, in modo ancor più esplicito di Adriano, un testo che si propone proprio in questa dimensione di parallelismo (una delle varianti, in fondo, di quella vocazione al rovesciamento propria di Flaiano). Si tratta di un montaggio, non rispettoso della cronologia, di pagine di diario datate fra il 1952 e il 1962, in cui il tessuto unitario è dato da Roma, dalle sue trasformazioni nel corso degli anni 50, e segnatamente da Via Veneto, suo centro culturale-mondano. In questo scenario si svolgono due storie parallele: da una parte gli ultimi anni di vita di Cardarelli, dall'altra la preparazione della Dolce vita, cui Flaiano attese dal giugno 1958, quando con Fellini e Pinelli decisero di riprendere il vecchio soggetto di Moraldo in città.

In questi Fogli possiamo cogliere una continuità, una storia, un'evoluzione: è quella del rapporto di Flaiano con la città attraverso un decennio di profonda trasformazione reciproca, la storia di un progressivo e amaro distacco, di un sofferto riufiuto. È la storia di quella trasformazione di Flaiano nel corso degli anni '50 cui abbiamo prima accennato, di un precipitare dall'ironia alla ferocia satirica, e poi all'amarezza e alla delusione più totale. Ma il carattere più evidente e insistito dei Fogli non sta tanto in questo processo evolutivo, bensì nella sua struttura oppositiva. Da una parte Cardarelli, il poeta della formazione romana di Flaiano, sempre più rinchiuso nella sua amara estraneità, sempre più immobile e avulso; il poeta che «non scrive più da qualche anno», che «non ama nemmeno che gli si parli di letteratura e di poesia, come cose morte, rifiutate, che hanno perso il loro valore e lo fanno boccheggiare a vuoto». Cardarelli è l'immobilità, il corpo svuotato della vita, freddo ed ingombrante, che viene affiancato all'animazione frivola e frenetica di Via Veneto, agli incontri con Fellini, alle notizie sulla lavorazione del film, sui suoi progressi, sulle sue vicende. La conclusione è emblematica: proprio nel momento in cui Fellini inizia finalmente le riprese, Cardarelli muore. Scompare anche la presenza fisica, inquietante nella sua freddezza ed immobilità, del poeta dolorosamente sopravvissuto alla morte delle illusioni della letteratura. Nel film non c'è posto per lui.

Dopo La dolce vita, Flaiano collaborerà ancora a tre film di Fellini. Ma l'impressione è che proprio nel momento in cui Flaiano è stato più partecipe del film che stava scrivendo, con maggiore violenza abbia percepito la lacerazione del non poter esserne l'autore. E un'analisi dettagliata della sceneggiatura della Dolce vita confrontata agli scritti contemporanei di Flaiano testimonia di questa lacerazione in quel fitto lavoro “in parallelo” di riscrittura delle sequenze del film.

Storie dell'italiano all'estero

Un motivo centrale dell'opera di Flaviano è quello del viaggio, un motivo d'altronde fra i più caratteristici del cinema italiano degli anni '50 e '60, uno dei momenti portanti di quel vitalismo che Viganò individua tra le note fondamentali della commedia all'italiana. È però un viaggio che ha quasi sempre le caratteristiche del turismo, o comunque del viaggio all'estero per confrontare (staticamente) quel mondo con l'Italia, con Roma.

Nelle sceneggiature felliniane, questo motivo non assume particolare rilievo: in Fellini il viaggio che conta è un altro, è quello dalla provincia alla città, da Rimini a Roma, mentre per Flaiano la direzione del viaggio è esattamente quella opposta, il tentativo di movimento da Roma verso un altrove. Un motivo che, così intimo all'opera di Flaiano e recepibile solo occasionalmente in Fellini, trovava invece ampia articolazione nella commedia italiana, nelle sue infinite variazioni sul comportamento dell'italiano all'estero, nella definizione di una “filosofia all'italiana” da esportazione eccetera. Con tutte le differenti valutazioni, ma anche con tutte le possibiltà d'incontro che il tema comportava.

Ma Flaiano, curiosamente, finisce per essere più vicino a certe caratteristiche della commedia all'italiana nei suoi scritti “diaristici” che nelle sceneggiature. Come in quel passo del Diario notturno in cui immagina l'arrivo dei Crociati in Terra Santa, ed essi incontrano napoletani che vendono rosari e medagliette, milanesi che gestiscono una casa da gioco, romani che trafficano in spade e corazze, e così via. È uno spunto tipico della commedia italiana, che non a caso Flaiano loderà ritrovandolo in Riusciranno i nostri eroi…: «Mi è piaciuto per la giustezza di un'osservazione di fondo, questa: l'italiano, nella sua qualità di personaggio comico, è un tentativo della natura di smitizzare se stessa. Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio preso in sè. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito».

Se nei suoi scritti l'argomento ritorna frequentemente, non altrettanto numerose sono invece le occasioni in cui si sia trovato a trattare il motivo dell'italiano all'estero nella stesura di sceneggiature. Tra gli esempi più importanti, vi sono Parigi è sempre Parigi (1951) e La ragazza in vetrina (1961), entrambi diretti da Luciano Emmer, un regista il cui rapporto con Flaiano meriterebbe un approfondimento. Il primo è un film concepito da Amidei su schemi narrativi analoghi al precedente Domenica d'agosto: vi si raccontano le piccole avventure di una comitiva di turisti italiani, giunta a Parigi in occasione di un incontro di calcio, ma poi dispersa tra le tentazioni e le delusioni della “Capitale del vizio”. La vicenda è frammentata in una serie di piccole storie individuali, e trova una sua riorganizzazione nella parte finale ambientata nei locali notturni: una circolarità d'intreccio nello scenario di una grande città che può in qualche modo richiamare alla memoria Roma città libera (in cui era però assai più scoperto il divertimento intellettuale). Flaiano collaborò in modo probabilmente sostanzioso al film, e gli appunti parigini del 1950 pubblicati nel Diario degli errori si possono quasi certamente far risalire al mese e mezzo di soggiorno nella capitale francese, condiviso unitamente a Emmer e Francesco Rosi per preparare il film. Più marginale sembra invece il suo apporto a Una ragazza in vetrina, cui pare abbia partecipato solo in sede di revisione della sceneggiatura (il soggetto è di Sonego): resta però l'ipotesi che i “foglietti olandesi” datati ottobre 1958 (ora nel Diario degli errori) vadano in qualche modo posti in relazione con la preparazione del film.

Ma la leggerezza ironica di Parigi è sempre Parigi sta ancora al di qua dell'inasprimento satirico di Flaiano nel corso degli anni '50. Allo stesso modo in cui un film come Hong Kong, un addio (1963) sta forse al di là, nel momento in cui Flaiano avverte l'insufficienza della satira ed affonda nel tormento moralistico. «Che satira esercitare», dirà in un'intervista del 1972 «dove la satira è superata dalla realtà? Avevo una certa tendenza alla satira: ne sono stato estromesso». Certo, nella banale vicenda di una coppia che riscontra la crisi del proprio matrimonio durante un soggiorno a Hong Kong, non sappiamo quanto Flaiano debba condividere le colpe del soggetto di Paolo Levi e della regia di Gian Luigi Polidoro; c'è però nel personaggio dello scrittore americano alcolizzato (Gary Merrill) la traccia di alcune problematiche di Flaiano involontariamente rovesciate nel ridicolo e nel grottesco. E questo scrittore impigrito. che non crede più nella letteratura ma «quando vuole scrive anche bene», vien fuori frequentemente in battute di dialogo tipicamente flaianee («Val sempre la pena di viaggiare per vedere sempre le stesse isole?», dice a un certo punto) ma enfatizzate in un contesto irrimediabilmente parodistico.

Migliori saranno gli esiti di Una moglie americana (1964), storia del soggiorno statunitense di un italiano che cerca di sposare una donna americana per stabilirsi negli Stati Uniti: un viaggio ovviamente deludente, che si concluderà con il ritorno in patria. Il soggiorno statunitense sarà ancora al centro di Melampo, la sceneggiatura di cui intendeva lui stesso curare la regia, e che invece finì per fornire il soggetto alla Cagna di Ferreri. La storia di Melampo, quale risulta dalla testimonianza di Oreste Del Buono e dai documenti pubblicati da Aldo Tassone, costituisce veramente l'episodio più violento e definitivo del rapporto di Flaiano con il cinema, che sperava di poter coronare il suo lungo lavoro di sceneggiatore con la regia di un film di cui potesse dirsi pienamente autore. La lunga, tormentata vicenda di Melampo si trascinò per cinque anni, dal 1967 (anno in cui Flaiano scrisse la sceneggiatura) fino al 1972, quando uscì il film di Ferreri, che con quel testo aveva ormai ben poco a che vedere.