Esploratori dello sguardo: Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian

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Per ricordare lo straordinario lavoro di Angela Ricci Lucchi, scomparsa ieri all'età di 76 anni, pubblichiamo alcuni estratti di un saggio a cura di Angelo Signorelli, dal n. 394 di Cineforum (maggio 2000). 

Calligrafi della luce, amanuensi dell’immagine, chiosatori della verosimiglianza, interpreti dell’apparenza: questo sono Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian. È facile immaginarli mentre toccano con le mani vecchi spezzoni di pellicola, mentre in controluce ne assaggiano con gli occhi le figure che il tempo non ha consumato. Poi la moviola, dove il movimento ricompone alcuni tra gli infiniti passi che l’uomo, tantissimi uomini, hanno compiuto per avvicinarsi alla propria morte. E qui comincia a crescere l’eccitazione perché da quelle immagini, come da poche note, può nascere qualcosa di più grande, di più profondo; qualcosa che sembra attraversare il tempo, ogni tempo, per far uscire ciò che vi era nascosto, come dietro ai segni di una scrittura ancora sconosciuta. Ma perché questo succeda, bisogna che quel materiale sia lavorato, trasformato, come nell’alambicco di un alchimista, perché il senso sia distillato, poco a poco, ed alla fine ci si trovi davanti a qualcosa di nuovo, di diverso, di sorprendente.

I frammenti visivi raccolti in passato da altre mani, spesso ignote, dietro l’apparenza del documento, la riconoscibilità di forme trascorse, nascondono una sostanza viva, una luce che viene da lontano ma che si proietta già nel futuro del nostro presente. Quelle immagini che appartengono all’infanzia del cinematografo, che racchiudono il sogno della rappresentazione fedele, rincorso con accanimento fin da epoche troppo lontane e impreparate, si aprono alla comprensione di quello che verrà.

[…] Il cinema è sì la morte al lavoro, ma è anche una continua produzione di futuro, perché ogni azione, ogni immagine in movimento fissa il passato ma apre al dopo, alla continuazione della sequenza. Il materiale inerte della pellicola ha dentro di sé un principio di indeterminazione, una quantità di “occasioni” che la dispongono al trattamento temporale.

Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi raccolgono questi sedimenti della visione e li ricompongono; essi ridanno loro una vita diversa, un significato che pesca nell’evento trascorso, ma insieme allude alle catastrofi dell’oggi. In primo luogo attraverso una fase di meditazione e di riflessione, poi plasmando le continuità del racconto. Il ritmo originario viene come scomposto e sostituito da cadenze altre, che sottopongono l’immagine a prove di senso. Poi c’è il colore, che lavora la trasparenza e la grana, così come le peculiarità della rappresentazione e della sostanza drammatica. Bagni che permeano la tela, tinte sparse che dialogano con l’essenza, che si stendono sul visibile e lo trasportano nella trascendenza dell’emozione, dove i confini si dilatano e il presente si congiunge con ciò che lo ha preceduto. Perché c’è una memoria che rimane come annidata dentro quei resti della visione, e non è costituita tanto dalle tracce del concreto, qualcosa che il tempo ha esaurito e catalogato, ma piuttosto essa risuona nella continuità della storia, parla delle vicende che, con scadenze generazionali, ripetono drammi e tragedie, l’affanno dell’essere per proseguire un cammino dalla meta ignota.

[…] Yervant e Angela si muovono tra le immagini da esploratori dello sguardo, utilizzando ciò che altri hanno visto, che hanno ritagliato nello spettacolo della realtà e che hanno abbandonato all’interpretazione dei successori. Sono anche brani raccolti da soggetti che si sono combattuti, che hanno militato in campi avversi. Ma questo non conta, perché, ora, non serve sapere cosa avevano in mente quegli autori inconsapevoli delle sorprese del tempo. Le immagini lasciate, che sono rimaste in un certo senso incompiute, hanno trovato occhi che con pazienza, con amorevolezza, con cognizione, si sono messi a rovistare tra le emulsioni. Così, esse, da oggetti che erano stati accatastati come strumenti di semplice documentazione, sono tornate a nuova vita, per costituirsi quali elementi di rappresentazione. I due registi usano il cinema nella sua evidenza più tangibile per fare a loro volta cinema.

[…] Questa operazione assolutamente estetica richiede, per essere compresa appieno, la pazienza e insieme la tensione di un atto d’amore: la disponibilità, da parte di chi guarda, a lasciarsi toccare dalle vibrazioni delle armonie, come se si trovasse in una sala di concerto. Solo in questo modo l’occhio può diventare veramente la lente attraverso la quale l’universale umano rifluisce con il carico delle tragedie, delle sofferenze, delle aspettative, delle chimere.

Alle origini del cinema c’era l’illusione che la realtà fosse finalmente riproducibile in tutte le sue parti; l’uomo con la macchina da presa godeva del potere di fare proprio il mondo, di poterlo dominare entro i contorni di una finestra che tenesse lo sguardo a una distanza tranquillizzante. Quelle immagini, ora, non sono più le stesse; il tempo che contengono si scompone per liberare scansioni e movimenti che si nascondevano nelle alterazioni dell’emulsione. L’arte dei due autori, la cui originalità e unicità sono pari alla loro forza di resistenza e perseveranza, è maieutica e si dipana nell’immanenza del segno; come un bisturi disseziona, entra nella carne viva dell’apparenza e dell’organismo che la produce.