Amarcord a Pasadena, Ca.

I cinquant'anni di American Graffiti

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Il 27 luglio del 1973, in una preview a Pasadena, California, veniva proiettato per la prima volta American Graffiti di George Lucas. Uno dei film più significativi della New Hollywood, American Graffiti narra dell'ultima notte passata assieme dai giovani amici Curt, Steve, John e Terry prima che le loro strade si separino: nostalgia per una vita che è già passato, ma anche curiosità per un futuro che sta per iniziare (la voce del disk jockey radiofonico che di tanto in tanto fa da contrappunto, dice: «Se il Lupo Solitario fosse qui vi direbbe di ingranare la marcia ai vostri culi. Il Lupo Solitario mi parla dei posti dove è stato, delle cose che ha visto. C'è un grande, grande, bellissimo mondo là fuori!»). Del film, ne scrisse molto approfonditamente Maurizio Porro su «Cineforum» n. 133, giugno 1974. Un consiglio: non provate a fare lo scherzo che Curt è costretto a fare, quello del cavo legato all'assale posteriore dell'auto della polizia; nella realtà, è fisicamente impossibile.

 

«Cineforum» n. 133, giugno 1974

Scheda

American Graffiti di George Lucas

Maurizio Porro

Personalmente sono sicuro che il cinema sia un grande, incommesurabile strumento di conoscenza della realtà sociale di altri Paesi. Più film abbiamo di un certo Paese, più ne conosceremo la storia. E allora la storia che conosciamo meglio è proprio quella degli States, dall'epopea western al primo sospetto di ranch come formazione paleocapitalistica. E conosciamo, di quel Paese, molto bene il gangsterismo, il mondo industriale, la piccola borghesia alla Doris Day con due figli di nome George Hamilton e Sandra Dee, e molte altre cose ancora.

La sintonia d'intenti fra il regista Lucas e il nostro palato di spettatori sta proprio nel massimo comun denominatore che si chiama “cinema (amor del)” che qui riveste la funzione di “medium” non soltanto espressivo, ma anche ideologico nel senso più stimolante del termine. E, come per L'ultimo spettacolo, la fruizione del film diventa un atto istintivo d'amore anche per il cinema, mentre film e cinema, racchiusi in un inscindibile unicum, sono la testimonianza di un modo di essere e di esistere. Attraverso il cinema e la storia che esso racconta di un nostro recente passato, tutto ciò che è reale diventa definitivamente razionale.

Prendiamo allora a prestito i moduli espressivi del cinema, i suoi luoghi tipici, la sua semiologia classica. E vediamo che American Graffiti – al pari del film di Peter Bogdanovich – è da essi costituito. I ragazzi, i quattro adolescenti protagonisti dell'opera, ci riportano alla memoria i tempi di Brando e di Dean, dei primi blue-jeans, del rock and roll, di quella famosa “gioventù bruciata”, che il cinema ha magnificato prima nelle moto guidate da Brando (Il selvaggio) e poi nella sfrenata corsa d'auto in Gioventù bruciata di Nicholas Ray e che il cinema francese, per fare un altro esempio, ha follemente martoriato in Peccatori in blue-jeans. American Graffiti è un film che si svolge nel 1962: i quattro giovani sono anagraficamente contemporanei a Troy Donahue, ognuno di loro ha vissuto, in un remoto giorno di provincia, il suo Scandalo al sole e ha conosciuto, nell'ombra dell'ipocrisia, i suoi Peccatori di Peyton. Terry, Steve, John, Curt sono questi i loro nomi, tutti usuali e banali, hanno visto quei film e probabilmente si sono commossi; hanno vissuto innumerevoli giorni di family life tra una partita a tennis e un mini petting con la compagna di scuola, scrutando il nascere e il crescere di quei famosi brufoli sul viso, che le persone bene individuano subito come turbamento sessuale della prima adolescenza.

American Graffiti è certamente uno studio della gioventù del 1962 e dei suoi·ideali più o meno sconfitti, ma è anche un modo di rendere omaggio al cinema di quegli anni. In Qualcuno verrà di Minnelli c'è una scena quasi identica a una del film di Lucas. Non so se tutto ciò, storia e cinema, cinema e storia, a soli dodici anni di distanza possa già essere considerato un reperto storico. Non so insomma se davvero questi graffiti incominciano già a vedersi chiaramente o se stanno solo per nascere, sotto la pietra, e noi forse a occhio nudo non possiamo che intravedere·il labile segno di un turbamento ancora indefinito. Quando la storia assume la S maiuscola? Ma so che tutto ciò, anche se non bene visibile, è però già importante, per la storia della nostra società e del nostro costume. So che descrivere la vicenda di un sabato sera è un atto d'amore e di poesia, non soltanto per quei quattro ragazzi, né soltanto per tutta la gioventù del 1962, ma per l'umanità intera, per quella che in un sabato sera del 1962 è ancora capace di comprendere un significato umano che va al di là della semplice descrizione dei fatti.

Una città di provincia

Il terrore di essere retorici e il terrore di usare la parola poesia o l'aggettivo poetico. Riguardo a un film. Ma bisogna usarli, di tanto in tanto. Per far sprigionare ancora le cause lontane della fantasia e della genialità che alla poesia sono legate. E American Graffiti è un film di struggente poesia, nel senso più classico del termine, considerando l'importanza che, nel contesto, riveste, come si diceva all'inizio, il senso della nostalgia, della adolescenza perduta, della speranza riveduta e corretta dagli eventi, del proprio personale squallore vestito a festa. Non si sa bene dove vivano quei quattro ragazzi di American Graffiti, credo in una cittadina di provincia della California, ma, per quanto ne so, nella casa accanto, potrebbe abitare Hud il selvaggio, il giovane greco emigrato di Kazan o anche uno di quei generali onnipossenti di 7 giorni a maggio.

La provincia di American Graffiti è di certo una provincia reale, perché verificabile nella storia degli States; ma nello stesso tempo è anche una provincia immaginaria, perché a costituirla entra, e da una porta importante, la nostra sensibilità, la nostra emozione. Non vorrei arrivare ad affermare che il paradigma esistenziale di American Graffiti è quello di ognuno di noi, cittadini del mondo, senza pregi vistosi e senza vistosi difetti, come in un panorama universale, anche perché probabilmente lo stesso Lucas rifiuterebbe una interpretazione così “universale” della sua opera; ma ho comunque questa impressione, che è in questo caso una impressione “poeticizzante” sulla vita e anche sul cinema.Vita e cinema, uniti indissolubilmente. Questa la magia e la bellezza del film di Lucas, il suo fascino.

Un film di atmosfere

L'adolescente ha avuto nella letteratura e nel cinema americano sempre un posto privilegiato e, per fare un esempio classico, basti pensare a Il giovane Holden di Salinger o ai teneri protagonisti di Quell'estate del '42 di Robert Mulligan. E non torniamo ai luoghi tipici mitteleuropei, dal Giovane Torless a Morte a Venezia. American Graffiti è anche lui un film privilegiato per l'adolescenza e per chi vi recita e per chi vi assiste. Qualcuno ha insinuato una genialità: che si tratti, in fondo, di un fatto puramente generazionale. Chiunque oggi ha trent'anni, tanto per dirla chiaramente, e vede un film su tutti quelli che nel 1962 ne avevano diciotto, non può non commuoversi. È chiaro che in parte tutto ciò è vero perché, come si è già detto, il film ha delle vere e proprie paludi di emozioni e nelle paludi basta intingere un piede che ci si resta dentro per intiero. Ma il ragionamento non è però così matematico, non dipende tutto dalla quantità, ma anche dalla qualità: il film di Lucas è baciato dalla misura, dall'amore e dalla tenerezza. Di far del cinema e, nello stesso tempo, di mostrare come accade che si vive e che si muore. In un certo periodo, per una certa ragione, o per nessuna ragione plausibile.

Il film di Lucas ha·il gusto della piccola narrazione, di quell'insinuarsi nelle cose che accadono a distanza di mezz'ora, rispettando curiosamente una sorta di quasi identità di tempo. Due ore di film mostrano una serata che avanza nella notte e poi nell'alba. Nientr'altro. Ma in questi quattro ragazzi, ognuno dei quali ricerca il suo doppio o la sua metà che dir si voglia, c'è un grande lembo di verità spicciola, di identità reale, di verosimile che diventa vero e viceversa. Pensiamo, solo per un attimo, a fare un paragone con il cinema italiano dove l'adolescente è quello di Malizia, Peccato veniale, Innocenza e turbamento: una lunga “masturbation story”, ultimo caposaldo dell'erotismo coatto della falsa cinematografia così detta permissiva. Non c'è bisogno che si racconti cosa fanno questi giovani, perché non è un film di fatti, ma di atmosfere.

È probabile che di sabati sera come quello mostrato nel film, i protagonisti ne abbiano vissuti molti anche in precedenza. Quello che noi vediamo è l'ultimo, alla fine della scuola, prima che uno di loro (ma in origine dovrebbero essere almeno due) parta per il college e prima che la gaiezza dei diciott'anni si rompa definitivamente per il primo dubbio e la prima responsabilità. Un valore esistenziale in un tessuto poetico l'aver emarginato e privilegiato una serata di sabato e l'averla vista da vicino, minuto dopo minuto, in quel suo lento, inutile scorrere da un semaforo all'altro, da una scempiaggine all'altra. Tutto inutile e tutto risaputo. I drive-in, i teddy boys, i turbamenti della ragazza che accetta di venire a pomiciare in macchina. Un repertorio consueto di cose e di gesti che conosciamo, in parte perché le abbiamo vissute e in parte perché le abbiamo viste al cinema. C'è sempre un rapporto di scambio. Graffiti, appunto, di un modo di essere e di un costume. Fenomenologia di appartenere a una classe, che non è socialmente definita con precisione.

Appartengono tutti alla borghesia questi adolescenti? Probabile di sì, ma in molti modi diversi. Del resto la borghesia è un modo di essere talmente universalizzato che può contenere ormai qualsiasi contenuto. Borghesi, nel senso che offrono·al tempo libero, alla uscita serale, al gusto della macchina, dello scherzo di “censo” fra compagni di scuola, lo sono. Appartengono a una casta e, con essa, a una età. Sono borghesi del mondo, anche se intorno la provincia americana mostra il suo volto più tipico e perfido. Si è detto che nel film ci sono gli anni della speranza, di Kennedy e del New Deal, che così presto dovevano venir contraddetti dagli avvenimenti. È vero, però, che Lucas ha saggiamente evitato di proporre il 1962 come un manifesto, anche se non risparmia cattiverie apocalittiche (lo sparo irato e improvviso del droghiere).

Gli ultimi tre minuti

Volendo obiettivamente attenerci alla verità del fenomeno e non scoprire a tutti i costi il “noumeno”, noi assistiamo a un sabato sera in cui alcuni giovani trascinano il tempo fino all'alba, sempre nell'attesa di divertirsi di più; ma fino a non divertirsi affatto. C'è l'ossessione dei condizionamenti: per tutta la durata o quasi del film i personaggi vivono dentro nelle automobili, chiusi fra un passaggio di rosso a uno di verde (là si dice «Walk» e «Stop»), guardando casualmente al finestrino, per pochi attimi, il volto sconosciuto del guidatore accanto, con l'accecante senso di odi et amo che proviamo per tutti coloro che vediamo ci somigliano in modo speculare.

L'ossessione dell'auto, tutti insieme, tutti a ritrovarsi a tempi alterni, e anche l'ossessione di quella radio da cui esce la voce misteriosa del Lupo Solitario, leggendario personaggio chiave per questi giovani che ascoltano i suoi consigli e la sua morale sulla vita. Lupo Solitario trasmette da una stazione radio che è lì accanto, ma sulla sua ubicazione si fantastica e ci si illude. E l'ossessione della velocità, dell'orario, del tempo, quel folle senso della supremazia che sfocia nella inutile corsa in macchina, lungo il livido dell'alba della domenica.

E infine la partenza del più bravo, del più ufficiale, dell'intellettuale, di colui che la didascalia ci dice diventerà scrittore. E, altrettanto·improvvisamente, l'annuncio che un altro invece diventerà travet in una agenzia di assicurazioni e che un altro morirà nel Vietnam e che l'ultimo morirà per un incidente d'auto, a causa di un ubriaco. Era il tipo bello alla James Dean, destinato a una morte senza senso e senza scopo. D'improvviso è finito tutto e la legge della temporalità spaziale del cinema impone di fare un salto di dieci anni: in tre minuti sappiamo tutto di quei quattro e poi subito le luci in sala, l'uscita, ancora con quel gelo della notizia inaspettata.

La magia del cinema e la non magia della vita che si sovrappongono, non per caso. La fine della musica, anche, di tutta quella musica che ci ha accompagnato per due ore e che risponde ai·leit motiv dei grandi successi di quel periodo. Tutti riconosciamo i motivi. Chi non è capace di legare un refrain a una serata spesa bene o male, a una sensazione, a un affetto, a un turbamento? Nulla più della musica riesce a produrre inverosimili salti nel passato.

Questi sono i graffiti che si competono. Non so se il film sia tutto d'alta qualità, forse non tutto lo è. Non è giusto il problema. Ma so che è un film importante e bello, anche se può essere stato concepito come un'operazione commerciale. Ha incassato molti milioni di dollari, in America, ed è stato prodotto da Francis Coppola che è quel bravo regista che poi a un certo punto ha diretto Il padrino. Non importa se è stata o meno un'operazione calcolata. Importa che la faccenda abbia del metodo e della logica. Che ci implichi, e non solo coloro che oggi hanno trent'anni. È un film dentro il senso delle cose, buone o cattive. Non è un manifesto politico o sociale, ma è come un lungo taglio fatto in esso, per mostrare in controluce quello che sta dietro, e sotto e ai lati.