I film di Cristi Puiu

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In occasione dell'uscita, giovedì 8 giugno, dell'ultimo film di Cristi Puiu, Sieranevada, di cui scrivemmo dal 69° Festival di Cannes, siamo andati a scartabellare gli archivi della rivista e abbiamo trovato gli articoli che i nostri collaboratori scrissero ai tempi della presentazione, sempre a Cannes, dei tre precedenti film del regista rumeno: Marfa si Banii - Staff and Dough (2001), The Death of Mr Lazarescu (2005) e Aurora (2010). E ricordiamo, inoltre, l'intervista che Cristi Puiu ha rilasciato alla rivista, in occasione dell'ultimo Lucca Film Festival.


MARFA SI BANII - STAFF AND DOUGH (2001)
Il film è interamente visibile, in lingua originale con sottotitoli in inglese, su YouTube a questo indirizzo.

Ovidiu, il giovane protagonista, cerca una scorciatoia per arricchirsi trasportando per conto di un mafioso locale una partita di “medicinali”. Ma apprende, troppo tardi, che si è venduto l’anima al diavolo. No, Faust non c’entra. Cristi Puiu, 34 anni, qui alla sua opera prima, si inventa una commedia che racconta sia la Romania dal capitalismo malavitoso, che come unità contabile utilizza il dollaro o il marco; sia i negozianti accattoni dei centri urbani (felicissimi gli interni casa-bottega, con la birra messa al fresco in bagno); sia, ancora, i giovani irretiti dai consumi simil-occidentali (basta un gelato alla svampita di turno per dimenticare la custodia della merce). Un’ora e mezza di on the road di inseguimenti, bozzetti casalinghi, tessere di un mosaico di varia umanità.

La regia sembra pigra, automatica: in realtà, pur con qualche discontinuità, è al servizio di una sceneggiatura che richiede l’attenzione al dettaglio e a un’interpretazione che risulta felice anche nei ruoli minori. L’occhio vigile sui personaggi non va a discapito della determinazione dell’ambiente. Costanza e Bucarest, le strade provinciali e l’autostrada, i bar e i supermercati sono le stazioni di una commedia umana ricca di verità e di umori. Anche il contrasto tra generazioni ha momenti godibili. Ovidiu registra direttamente o tramite telefonino il vuoto pneumatico del suo rapporto con i genitori e gli amici. Osservazioni critiche si alternano a dettagli crudeli. Comicità e amarezza si mescolano, alternandosi a momenti drammatici e avventurosi.

Tutto sembra semplice e necessario, anche se, forse per ragioni produttive, in qualche scena si avverte una frettolosa superficialità. Siamo dalle parti della commedia al- l’italiana, ma Puiu sa far centro senza avere alle spalle neorealismo e neorealismo rosa. Qual è il segreto della scorciatoia del regista rumeno? La conoscenza della realtà che vuole raccontare e la capacità di darle un’interpretazione. Acre e polemica.

Giorgio Rinaldi, Cineforum 406

THE DEATH OF MR LAZARESCU (2005)

«Avete ancora la nausea?» – «Ho come una melancolia!». Questo è Lazarescu Dante Remus, anni 63, gatti tre. Un uomo melancolico, cinico, ironico, forse, perché di lui non si sa molto. L’unica cosa che per certo si conosce è che lentamente, lentamente se ne va verso la morte. Cristi Puiu racconta la storia della dipartita di quest’uomo dal mondo, la sua odissea ospedaliera che lo porta in giro per le strade e i pronto soccorso di Bucarest in una lunga notte rumena. L’infermera Mioara lo accompagna in ambulanza e con il trascorrere delle ore si lega a questo individuo e al suo destino, prendendosi cura del suo corpo che è l’unica cosa che di lui, gradualmente, resta.

Un film sulla morte. Ma anche un film sul rapporto con la morte e con la malattia che alla morte conduce, su come questo rapporto venga vissuto non solo dal malato, più o meno cosciente e consapevole, ma anche da chi con la malattia lavora e convive costantemente. E poi, ancora, un film sull’amore verso il prossimo, un amore che non c’è o che latita. Quest’opera rappresenta infatti il primo capitolo di un progetto dal titolo “Sei racconti dalla periferia di Bucarest”, che saranno sei racconti morali (una sorta di replica a Rohmer, dice il regista), sei storie d’amore: amore per il prossimo appunto, amore tra uomo e donna, amore per i figli, amore per il successo, amore per gli amici e amore carnale.

E, infine, un film sulla comunicazione che, ancora una volta, non c’è, manca, latita, persa nei meandri dell’incomprensione e dell’incomunicabilità. Eppure, paradossalmente, è attorno al comunicare che si costruisce ogni quadro. Quasi ognuno di questi è infatti concepito come un lungo piano sequenza ipperrealistico che segue, camera a mano, tre personaggi che animano la scena: due dialogano, per lo più senza capirsi, il terzo assume il ruolo di un moderatore surreale, a volte attivo a volte passivo, che sottolinea comunque la fallimentarietà di questo confronto dialogico di fronte all’inesorabilità della morte. Gli stacchi di montaggio che legano un piano all’altro scandiscono infatti una tappa di avvicinamento alla fine del signor Lazarescu.

Non molto del personaggio viene raccontato: dedito all’alcool, ci viene presentato, dolorante e vomitante, sul divano della sua casa, trasandata come lui; solo tre gatti a fargli compagnia, una sorella in una città vicina, una figlia in Canada e due vicini che si improvvisano farmacologi. Le sue condizioni in progressivo peggioramento rendono necessario chiamare un’ambulanza e abbandonare, l’unico elemento a destare in lui vera preoccupazione, i suoi tre gatti. L’ambulanza comincia così a traghettarlo verso la morte passando da un ospedale all’altro in una sfortunata notte monopolizzata da un terribile incidente che affolla tutte le urgenze. I suoi traghettatori, l’autista Leo e l’infermiera Mioara, restano gli unici punti fissi in un rallentato vortice di presenze che sfilano ruotando intorno a loro. Piccoli ritratti, schizzi umani, bozzetti incisivi di individui che compaiono per sparire poco dopo facendo spazio ad altri che contribuiscono a dar forma al commiato del signor Lazarescu dal mondo o del mondo dal signor Lazarescu.

Il tempo del racconto allora si dilata, eterno, lentissimo creando tensione, coinvolgimento, aumentando la partecipazione emotiva per le sorti di quest’uomo che perde coscienza di sé e dell’universo che lo circonda. E questo universo assume di volta in volta l’aspetto di un pronto soccorso, di un medico, di un’infermiera diversi ma sempre uguali. Il contesto è quello asettico ma insieme caotico e claustrofobico dell’ospedale, una sorta di catena di montaggio in cui le vite sfilano, più o meno sofferenti, in cerca di sollievo e conforto; ma restano corpi, solo corpi. Così quello di Lazarescu che finirà per giacere comatoso in attesa di un certo dottor Anghel che finalmente si occuperà di lui.

Sei ore ci mette Mioara a trovare qualcuno che si prenda in carico quell’uomo, e la narrazione di queste sei ore ne dura quasi tre. Tre ore durante le quali Puiu mette in scena una commedia umana in interni che grazie alla secchezza, alla lentezza, ai dialoghi si carica di una forza espressiva eccezionale. Il regista, che confessa la sua ipocondria psicopatologica, utilizza questo mezzo anche per esorcizzare le sue paure, i suoi fantasmi che trovano comunque facile spunto di immedesimazione per chiunque. I suoi film, ci tiene a precisarlo, sono molto scritti, dettagliati, curati, nulla è lasciato al caso in modo che alla lunga prepa- razione possa poi succedere una fase di ripresa volta a catturare l’immediatezza del reale. E in quest’ottica la macchina da presa diventa potentissimo filtro, privilegiato punto di osservazione che ha la premura, però, di tenersi a distanza da quella realtà, meticolosamente at- tento a lasciare la possibilità allo spettatore di fissare i propri spazi e tempi di reazione agli stimoli che gli vengono offerti.

Cristi Puiu era già stato a Cannes nel 2001 alla Quinzaine des Réalisateurs con il suo primo apprezzato lungometraggio Marfa si Banii - Staff and Dough; il protagonista là si chiamava Ovidiu, il protagonista qua si chiama Dante, chi deve arrivare per prendersi cura di lui è Virgil e il dottore che finalmente, forse, gli presterà le cure dovute è Anghel. Non nomi casuali dunque ma una rete di rimandi ricca di valenze simboliche: così il regi- sta spiega come la morte di quest’uomo, che di cognome fa Lazarescu, possa essere vista proprio come la rappresentazione metaforica della morte di un moderno Lazzaro rumeno che trapassa nell’indifferenza e nell’incomunicabilità generali. La scelta di questi nomi, così come i particolari dell’arredamento degli appartamenti, i colori sempre diversi dei camici di medici e infermieri, i tratti somatici di queste maschere, tutto conferma la cura che viene riservata al dettaglio, mai gratuito, che diventa anzi valore aggiunto di significativo impatto. Un simbolismo delicato e acuto che vena così il realismo estremo, quasi documentaristico della messa in scena.

Moartea Domnului Lazarescu vince meritatamente il premio della sezione; un film che mostra la morte di un uomo, la morte di uno spirito che svanisce, di una presenza che abbandona la vita per lasciare spazio alla pura fisicità in sfacelo. Solo il corpo rimane, un corpo malato, a rappresentare il passaggio di un individuo che però è già morto ben prima del decesso del corpo stesso, perché un uomo muore quando perde coscienza di sé, delle facce che lo guardano, delle voci che gli parlano. Un film potente, difficile, patologico, in tutti i sensi, in cui il pessimismo esistenziale e l’humor nero arrivano a veicolare paradossalmente, una strana sensazione di leggerezza cosmica.

Chiara Borroni, Cineforum 446

AURORA (2010)

Da un uomo che muore a un uomo che uccide. In questo scarto apparentemente antitetico eppure così tremendamente simile sta tutto il senso dell’opera di Cristi Puiu: cinque anni dopo The Death of Mr. Lazarescu torna al cinema con Aurora, e volendo giocare con i titoli, dopo la morte ecco l’alba di un nuovo giorno. Ma il nuovo giorno per Puiu è nient’altro che l’inizio di un lento sterminio, quello compiuto dal protagonista del film. Con il suo secondo capitolo dei “Sei racconti dalla periferia di Bucarest”, in risposta ai “Sei racconti morali” di Eric Rohmer, il regista romeno realizza una sorta di thriller estremamente dilatato, confermando la propria ossessione verso il tempo e le sue “durate” narrative. Dopo aver pazientemente atteso la morte nell’ultimo giorno di vita del signor Lazarescu, Puiu si mette di fronte la macchina da presa per interpretare lui stesso il protagonista, Viorel, un uomo stanco e divorziato le cui frustrazioni con la sua ex moglie e la sua famiglia lo portano a commettere una serie di efferati omicidi.

La distanza tra i due film di Puiu è più evidente di quello che si potrebbe pensare a prima vista: mentre in The Death of Mr. Lazarescu erano presentati una moltitudine di spazi e di persone di ogni ceto sociale – come se fossero tutte delle possibilità esterne al protagonista morente, comunque perseguibili (almeno narrativamente) – in Aurora manca alcuna specificità, non c’è nulla di superfluo o di esterno oltre a quello che è sullo schermo.

Al centro del film c’è il nulla elevato a qualcosa di speciale, ma che può divenire tale solamente quando lo spettatore diventa familiare con quel nulla: ecco spiegato quell’insistere di Puiu sulle abitudini del protagonista, nei suoi modi da paranoico totale, con l’unica finalità di aderire a esso in maniera perfettamente naturalistica. Viorel è allora il mezzo col quale scardinare il quotidiano: basti osservare come Puiu lo (anzi, si) isola costantemente dal resto del mondo. Viorel/Puiu è perennemente nascosto dallo sguardo altrui, dietro porte o muri dai quali invece osserva tutto ciò che lo circonda: quello del regista è un terribile gioco tra la propria maschera e il fuoricampo, e se per questo motivo si ha come l’impressione che la cifra stilistica di Puiu ricalchi qualcosa del polar francese, è altrettanto chiaro come il regista rumeno sia poi vicinissimo al cinema del suo Paese.

Nonostante Puiu abbia dichiarato con un pizzico di sarcasmo di sentirsi come uno straniero per via della lunga durata del proprio film, Aurora non solo ha in comune lo stesso finale giudiziario (con un grottesco interrogatorio) con Politist, adjectiv di Corneliu Porumboiu, ma anche una più generale affinità nell’uso di quelle “esplorazioni comunicative” tipiche della cinematografia rumena.

Come nel già citato Lazarescu e nel misconosciuto esordio Marfa si Banii - Staff and Dough (2001), Puiu persegue anche in questa sua ultima opera una sorta di “destrutturazione” della comunicazione verbale, che nelle mani del regista rumeno diviene uno strumento satirico col quale dimostrare quasi scientificamente l’inefficacia del linguaggio. Non arriva a utilizzare la semantica come fa Porumboiu in Politist, adjectiv, ma il solco è esattamente lo stesso. Così come il fine: parlare della Romania oggi, un paese alla disperata ricerca di un nuovo “vocabolario civile” per concludere la propria transizione democratica che pare non aver mai fine.

Lorenzo Leone, Cineforum 495