Il disprezzo di Godard

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In occasione dell'uscita di Le mépris di Jean-Luc Godard in versione restaurata distribuito dalla Cineteca di Bologna, siamo andati in archivio a rileggere il numero 94 di Cineforum. Era il settembre 1970 e Piero Antonio Lacqua scriveva una serie di personali e cosniderazioni sul cinema di Godard. Ve ne riportiamo uno stralcio riprendendo naturalmente le pagine scritte proprio su Il disprezzo


Come si può leggere, una intitolazione cauta e dimessa: non pretendo d'altronde d'impiantare una mini-monografìa sul regista; anzi, per la varietà dei giudizi, per la complessità d'un rinnovato acchito critico preferisco dilatare il discorso, facendo assurgere a Godard tutta la sua forza di «fenomeno culturale», accennando così pure a quelle riflessioni estetiche e tecniche sul cinema che proprio dai suoi film hanno tratto spunto e pretesto .

I vuoti dei films di G. hanno sempre trovato esegeti pronti a riempirli; così, su  Ombre rosse ha affermato Ciment. E, certo, quest'invandenza critica c'è stata e c'è, spesso mistico-disgressiva, quasi sempre marca Cahiers du cinema (« avec lui la conscience du cinéma se confond avec la conscience de la vie... le cinéma c'est la vie »; G. è il cinema... gli altri sono nel cinema, subiscono il cinema: ecco cosa hanno rispettivamente scritto Delahaye e Faccini. Antitetica invece l'enfasi stroncatoria di Fofi, sul già citato Ombre rosse, secondo il quale il regista francese è un tipico, insostituibile esempio del disorientamento del giovane intellettuale europeo anni '60, « provinciale e marginale », compiaciuto nelle proprie impotenze e incomprensioni: ora, il limite d'una tale impostazione è che il discorso non s'apre a fini concretamente, problematicamente storicizzanti, ma sbrigativamente demolitori.

Questo ancora dunque G. '70, con i dilemmi metodologici, le apologie liricizzate, le stroncature che già constatava e profetizzava  Collet nel '63, nella prima solida monografia sul regista. Controversie pericolose, tali che Collet nella sua volontà di non invischiarsi nelle concrezioni disgressive attorno alla sua opera filmica con il rischio d'« analizzare Charensol e Benayoun invece dei films di G. » proponeva di reperire un PURO G., in un velleitario approccio alla sua « démarche créatrice »: ma fortunatamente questa ricognizione in chiave romantico-crociana doveva rimanere un'intenzione nominale, dissipata dall'impianto robustamente documentato del saggio, per alcuni versi ancora valido, anche se ormai non così stimolante quanto « J. L. Godard au déla du récit », opera-a più voci, i cui rispettivi contributi acquistano anche il senso di emblematici campioni testimonianti d'atteggiamenti critici notevolmente differenti. Molto lucide e coerenti, all'interno d'un loro conosciuto discorso, le posizioni di Aristarco e Baldelli; più disuniti gli altri testi, ivi compreso il lavoro d'impianto saggistico di Amengual generalmente molto brillanti e disinvolti nei rimandi culturali. Si sa come si sia tentato di immettere G. sotto le più di sparate costellazioni; ebbene, nel libro citato, Mireille Latil-De Dantec gli dà a protettori addirittura Shakespeare e Platone! Lo Shakespeare dell'Amleto, inventore del teatro nel teatro e il Platone del Cratilo, tutto interessato a questioni di linguaggio...

Personalmente sono diffidente verso tentativi di spiegazione d'un universo culturale ricorrendone ad un altro, semmai altrettanto complesso e contradditorio. Si pensi anche al Pirandello troppo sbandierato di Aristarco. Continuando poi in questa rapida carrellata d'atteggiamenti critici multiformi, interessante appare la monografia di Roud pubblicata nel '67, su cui tornerò, nell'insieme comunque discutibile nello strumentalizzare tutti i films — indistintamente — per costruire una compatta e univoca « visione del mondo » godardiana. Infatti tale tendenza porta ad una puntuale descrizione di personaggi e ambienti, senza tener presente quanto di work in progress e vicoli ciechi esiste nel nostro autore.

Ultima delizia critica, per concludere, il recente libriccino di  Mancini, patrocinato dalla rivista Filmcritica e per tanti versi sconcertante. Innanzitutto nell'economia editoriale: poche pagine d'introduzione ultraspecializzate, con allo sbaraglio « con notazioni vincolanti dell'impegno filmico pasoliniano » e « iposemi » vari... Poi, spacciato per materia le primario, alcune conversazioni con l'autore, genere inevitabilmente oscillante tra il tematico e il salottiero, accentrato su cosa ne pensa di questo o quello l'intervistato. Insisto su questo lavoro di Mancini con voluta polemica, perché solo tutte le recensioni e le attenzioni di Filmcritica per G. avrebbero potuto e dovuto costituire le basi per un discorso più ampio e puntuale e anche perché 's'ha da essere esigenti: non conosco in italiano, d'un solo saggista, una vasta ed esaustiva monografia sul più discusso dei registi moderni.

Questo, grosso modo, il panorama della " critografia" godardiana, nei cui confronti il mio contributo vuol essere soltanto una onesta messa a punto.



LE MEPRIS

Perciò per G. il film è l'arte del presente, d'un presente captabile attraverso una tensione tra improvvisazione e intenzione. Ma nel regista francese ci sono anche altri livelli problematici: il contrasto vita-letteratura, rivissuto molte volte quale dialettica stilistica documento-finzione, diventa, ad es. cancro psicologico in Paul Javal, primo personaggio totalmente non naif della ritrattistica godardiana. G. ha detto casuale la baricentricità di Paul, ne Le mépris, dipendente dal fatto che Camille interpretata da Brigitte Bardot, non poteva rappresentare che una natura molle, istintiva, tale da costituire un ulteriore, interessante problematico punto di vista. Nonostante questa corporale presenza di Brigitte Bardot, vale sottolineare come proprio da alcune sequenze che coinvolgono Camille si possa illustrare la tendenza di quest'opera unica nel vorticoso produrre godardiano. Alludo al tentativo di Camille di ricostruire attraverso una serie di flash-backs il comportamento ambiguo di Paul verso il produttore Prokosch; addirittura con un procedimento mentalistico degno di Resnais: tra questi stralci sfuggenti di memoria è inserita una breve sequenza di Capri (dove non è ancora andata, dove non vorrebbe andare) che nella sua appartenenza al futuro è già un annuncio del suo cedimento psicologico. Se Le mépris è il più psicologico dei films godardiani, è pur sempre un film della «prova»: i perché non sono che sospetti e la mdp spinge al massimo la sua percettività: ed es. nella lunga sequenza nell'appartamento romano, con la mdp oscillante da Paul e Camille: e ancora qui, nelle interrogazioni di Paul, l'angoscia di dover decifrare un volto, una voce. Parole e gioco di sguardi: nel Disprezzo spesso si creano vere catene di sguardi. Non è comunque il celebre sguardo robbe-grillettiano, asettico, analitico; scriveva G. nel '52 sui Cahiers: « Le regard puisq'il permei de tout dire, puis de tout nier, car il n'est qu'accidentel, est la pièce maitresse du jeu de l'acteur de cinema... ». E nel '57: « Regarder autour de soi c'est vivre libre. Le cinema reproduit la vie, doit done filmer des personnages qui regardant autour d'eux ».

Ma nel Disprezzo alla storia dei « sospetti » di Paul e Camille, si sovrappone la storia d'un film da scrivere, una amara riflessione etica ed estetica sul cinema e infine un " documentario " su F. Lang. Dice Francesca a Paul: voi aspirate a un mondo come quello d'Omero, sfortunatamente non esiste. L'intellettualismo di Paul che vive in una finzione che stravolge persino la sua vita coniugale e che lo fa tendere ad una inesistente utopistica armonia è senza dubbio la più chiara sublimazione di quella amara lacerazione vita-letteratura di cui già si diceva. Contrasto comunque non ribaltato in radicali dissacrazioni. Infatti la disarmonia tra classicismo perduto ed esistenza confusa viene " congelata " nella "saggezza " di F. Lang, saggezza sobriamente condensata nel suo finale, forte « regard lucide », ambigua riparazione alla corrosione della coscienza in Paul. Pasolini ha parlato della « volgarità » godardiana, eppure il Disprezzo con le sue pietrificate immagini di Capri rischia addirittura la SACRALITÀ. Ogni tensione sembra infatti dissolversi momentaneamente in una liturgia degli strumenti cinematografici stessi che ha ben chiarito C. Jacotev (« Etudes cinematographiques », n. 57-61).

« Le moyen n'est pas le cinéma mais la caméra ». Il cinema è per lui un fine, lo sappiamo. In questa prospettiva il Disprezzo è un'opera addirittura a parte, troppo « saggia » se pensiamo alla più amara lezione in fondo degli stessi problemi in Le grand éscroc, la cui eroina non a caso si chiama P. Leacock. Richard Leacock è infatti uno dei documentarsti della living caméra, come Rouch, verso cui G. più volte s'è detto debitore. E' la parabola di P. Leacock, che cerca la verità del documento attraverso il cinema e ne capisce l'impossibilità; anche il grand éscroc nella « vita » gioca il suo ruolo di finzione... Non è più possibile il cinema-verità, al massimo, tutt'al più del teatro-verità…

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