L’uomo che volle farsi re di John Huston

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La scomparsa di Sean Connery segna la fine di un’epoca cinematografica indimenticabile. Fra i tanti modi che abbiamo scelto per ricordarlo e celebrarlo vogliamo ribubbilcare anche questa recensione di uno dei suoi film più amati: L'uomo che volle farsi re. Articolo a cura di Paolo Mereghetti apparso su Cineforum 155 del giugno 1976.


Troppo spesso davanti ad un film come L’uomo che volle farsi re, scatta nella mente dello spettatore un meccanismo che fa anteporre ad ogni considerazione critica il fatto produttivo: girato tutto in esterni con moltissime comparse e due attori di richiamo, deve essere per forza un oggetto di consumo, alienante e vuoto. Come se i film che arrivano da Hollywood, o da Pinewood nel caso di Huston, siano merce, mentre, per fare un esempio persino logoro, Ultimo tango a Parigi (che i soldi americani li ha avuti, eccome) non è una merce, ma un'eterea opera d’arte che solo qualche distributore senza nessun ritegno morale ha voluto sporcare con una distribuzione commerciale. Tutto questo per dire che ci sembra un residuo di idealismo dividere i film in diverse categorie del tipo: film di impegno (che di solito sono europei, o comunque legati a istanze europee). film spettacolari e alienanti (sottili opere del Capitale cinematografico che usa potenti mezzi messigli a disposizione per rendere gli spettatori ancora più schiavi dell’Imperialismo, quasi sempre made in USA) e infine film n.d.r. (non degni di recensione). Tutti o quasi, ma le eccezioni non sono più di dieci, sono prodotti commerciali che hanno bisogno di soldi per essere girati; ma noi speriamo che a nessuno venga in mente di stroncare Marcia trionfale perché il protagonista è stato interpretato da Franco Nero, evidentemente imposto dalla produzione.

Comunque torniamo a Huston ed al suo Uomo che volle farsi re, che non sarà un capolavoro ma che è comunque pieno di grossi motivi di interesse. E come primo vorremmo mettere il fatto che è un film girato da grossi attori: troppe volte i problemi recitativi sono stati messi in secondo piano, troppo spesso il messaggio del film ha offuscato l’impegno dell’attore. Vale allora la pena di spendere due parole su Sean Connery, soprattutto, che dopo Il vento e il leone ci propone una grande interpretazione: un po’ sornione, con una grande espressività mimica, elegante senza essere aristocratico, il suo Daniel Dravot aggiunge l’autoironia al personaggio disegnato da Kipling.

Saltiamo così nel concreto del film che Huston ha saputo vivificare e attuare proprio in chiave ironica. Il racconto di Kipling contiene in filigrana la parabola dell’imperialismo inglese: nella storia dei due avventurieri che conquistano un territorio primitivo e vi portano civiltà e giustizia ottenendone in cambio potere e ricchezze, si può facilmente vedere l’immagine del Regno Unito che civilizza il mondo. Kipling fu un cantore di queste gesta più che un osservatore critico, ruolo che invece vuole per sé Huston, il quale introduce nel tessuto del film una serie di notazioni e battute che demitizzano l’operato dei due avventurieri. Da questo punto di vista sono molto significative le scene con Billy Fish, con il rapporto a metà fra il paternalistico e l’autoritario che instaurano con lui, e le divertentissime sequenze dell’istruzione dei militari dove, visti i metodi con cui vengono addestrate le truppe di Sua Maestà Britannica per un gruppo di selvaggi che neppure capiscono la lingua in cui vengono impartiti gli ordini, balzano all’occhio la comicità per non dire la stupidità di queste pratiche.

Ma l’intervento di Huston si esplica anche ad altri livelli. All'interno del racconto, con la beffa finale degli asini e dell’oro che cade nel burrone, così simile alle ultime scene del Tesoro della Sierra Madre, ma anche all’esterno del film con l’introduzione del personaggio di Kipling. Il lungo prologo non è una gratuita invenzione di Huston, ma possiede un suo scopo preciso: permette allo spettatore di fare una netta distinzione tra il giornalista e i due avventurieri. In altre parole da una parte c'è chi le storie le vive in prima persona, andando a conquistarsi il proprio regno, e dall'altra c’è invece chi è capace solo di raccontare avventure che accadono agli altri (al limite neppure di inventarle). E anche l'ultima scena ripropone, con la sua stessa presenza, questa dicotomia. E per un regista, cioè per uno scrittore che non lavora con la penna ma con la macchina da presa, ammettere questa anteriorità dell’avventura è già un grosso atto di umiltà.

Per finire c’è un’ultima cosa che ci intriga molto in L’uomo che volle farsi re: la fortuna di Daniel Dravot inizia con un inganno, involontario, (la finta ferita da freccia) e continua, sempre in modo involontario (il simbolo massone donatogli da Kipling), fino a quando Dravot è perfettamente cosciente che tutta la storia, dal regno del Kaphiristan a Sikandergul, è una favola per persone sottosviluppate. Dravot sta al gioco e comanda. Ma quando, improvvisamente, comincia a credere che il gioco sia realtà, allora inizia la sua caduta perché effettivamente è un comune mortale. La finzione perde il suo carattere di finzione (i re venuti dal cielo) per assumere quello di realtà (Dravot legifera). Non è un po’ la storia del cinema hollywoodiano, entrato in crisi quando ha abdicato alla sua componente di mise en scène, di fiction?