La vie en Belgique: esistenze vissute, esistenze rubate

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Chi è Thomas Van Hasebroeck, e perché ce l'ha tanto su con Alfred Kant? L'anziano Thomas, che ha alle spalle un'esistenza di grigiori, malinconie, recriminazioni e occasioni mancate, è convinto di essere stato scambiato nella culla con Alfred, che a sua volta ha avuto una vita di successo ma al quale il destino sta presentando il conto. Strutturato secondo un sapiente quanto complesso uso dei piani temporali (che seguono infanzia, età adulta e vecchiaia del protagonista), Toto le héros è uscito nel 1991, è il primo lungometraggio del regista belga Jaco Van Dormael (oggetto di un omaggio da parte dell'ultimo Bergamo Film Meeting) e sta per essere rieditato in sala grazie a I Wonder. Profondità psicologica, acume narrativo e un certo tocco surreale fanno di Van Dormael un degno esponente di certa cultura belga, al pari di altri suoi illustri concittadini come Magritte, Simenon, Brel, Hergé. A suo tempo, ne scrisse su «Cineforum» Ermanno Comuzio (n. 314, maggio 1992). Riproponiamo la sua recensione.

 

«Cineforum» n. 314, maggio 1992

Scheda Toto le héros

Storia di un uomo che racconta una storia

«La vita non è che un'ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla»

(Shakespeare, Macbeth, atto V scena V)

 

Dopo aver lavorato cinque anni sulla sceneggiatura di Totò le heros, il trentacinquenne Jaco Van Dormael da Bruxelles che è o cerca di essere “au dessus de la melée”, ha licenziato un film, “Maas Masala” (Maas in fiammingo, Meuse in francese, è la Mosa, il fiume più importante del Belgio. Che, vedi caso, nasce in Francia e si getta nel Mare del Nord, in Olanda). Un film, insomma in cui c'entrano produttori francesi e tedeschi, oltre che belgi; e valloni e fiamminghi. Le due Comunità hanno dato il loro concorso accanto ai produttori privati e agli organismi “europei”.

Toto le héros è un film belga, se vogliamo – e poi non insisteremo più che tanto sulla sua nazionalità – perché si situa davvero a un crocevia di motivi culturali di diversa ispirazione. Il gusto per il fantastico-paesano, per così dire, dei fiamminghi, le sollecitazioni di certa cultura francese, certe illuminazioni scespiriane come quella del Macbeth sopra citata, che il protagonista legge durante la sua notte d'attesa, in agguato davanti la casa del suo coetaneo e “rivale”. Il punto di partenza, ce lo dice lo stesso regista, è costituito da una frase di Rimbaud, scritta quand'era mercante d'armi in Abissinia: «Ciò che ha maggior probabilità di accadere è che si vada dove non si vorrebbe andare e che si faccia ciò che non si vorrebbe fare; e che si viva e si muoia in modo del tutto diverso da come si vorrebbe, senza speranza in alcun tipo di compensazione».

Questa storia «piena di rumore e di furore» è raccontata da Van Dormael con uno stile assolutamente appropriato alla caotica casualità degli eventi, o meglio al loro forse preordinatissimo inanellamento. Nell'esporre, a fianco, la trama del film, ho cercato goffamente di rendere almeno un po' la successione dei fatti e il loro ritmo, ma sarebbe stato meglio, tutto sommato, limitarsi a raccontarla in questo modo: «È la storia di un morto che racconta la storia di quando era un vecchio il quale si ricorda di quando era un adulto che si ricordava di quando era bambino il quale immaginava ciò che sarebbe potuto accadergli». Così lo stesso autore espone la vicenda a scatole cinesi: esempio di cinema puramente soggettivo, in cui ritmi e immagini sono più vicini al pensiero che alla realtà.

Tutto si basa sui meccanismi della mente, sulla storia di una vita che assomiglia a una storia: tutto procede per associazioni di idee, e infatti gli eventi vengono esposti non secondo il loro svolgersi ma secondo memoria e immaginazione, in un sistema a volte addirittura vertiginoso di flash back e flash forward, veri o immaginari che siano. L'immaginazione, il potere visionario: sono le molle di tutta l'operazione. La fantasia fiabesca (il veliero magico), il meteorite che piomba dal cielo e apre il racconto – nel finale saranno le ceneri di Thomas a cadere, meteorite non più greve e impazzito ma diventato della materia di cui son fatti i sogni); il cinema (i filmini a 8mm cui il protagonista ricorre continuamente, da adulto, per ricordare gli affetti perduti); la televisione (che è poi ancora il cinema: i film polizieschi americani in bianco e nero sui quali Thomas ricalca le sue fantasticherie) nutrono continuamente l'esistenza del personaggio, che è un vero uomo-scherzo, un vero “occhio privato” in senso ben più largo di quello dell'agente con trench e pistola che lui vorrebbe essere. A tutte le età “vede”; e sogna, questo è importante, anche da vecchio. Lo vediamo infatti, subito appena presentato nel suo ospizio immagnare di far inghiottire brutalmente all'infermiera quelle pillole che lei gli propina (sono anzi più “vivide” queste fantasie – infatti sono a colori e non c'è alcuno iato fra questi momenti e quelli reali – di quelle infantili in bianco e nero dell'agente segreto, pur appartenenti anche all'adulto e al vecchio).

Tutto dunque appartiene alla “visione”, tutto si realizza nell'immagine: e dunque tutto è presente. La morte ha già lavorato, il protagonista è già morto all'inizio, lo vediamo riverso nella vasca della casa di Alfred, di colui che gli ha rubato la vita, prima ancora di vederlo neonato, scambiato nella culla. La favola del figlio cambiato è, come noto, un copione pirandelliano, e qualcosa di Pirandello c'è, in questa storia di devastanti elucubrazioni (alcune battute, fra l'altro, potrebbero benissimo appartenere proprio a commedie del Siciliano, come «Un attimo di distrazione, e la mia vita l'hai vissuta tu al posto mio. Ladro!»). Ma la “tesi” del film – se di tesi si può parlare – è tutta, come si diceva, nelle immagini, il che non è così ovvio come potrebbe sembrare ponendoci di fronte a un film.

La nevrosi di vivere, la capacità di sognare

Tutto è presente, dunque, nel senso che tutto è già avvenuto e tutto si ripete. Ciò giustifica i salti avanti e indietro nel tempo, che rendono indubbiamente alquanto faticosa, talvolta, la visione (bisognerebbe proprio vederlo due volte, non solo per scriverne, ma proprio anche “solo” per capirlo e gustarlo meglio). Un presente psicologico, naturalmente, quello che ha più importanza, ed è l'abilità con cui il regista incastra attacchi e rimandi a sorreggere l'operazione e a costituirne l'originalità. Quando Thomas bambino dice per esempio ad Alfred che loro sono stati scambiati da piccoli e il coetaneo gli risponde: «Se lo dici a qualcuno ti uccido!», subito dopo vediamo Thomas vecchio che “ribatte” idealmente ad Alfred: «Uccidimi, che aspetti?»; e poi ecco Thomas cadavere, chiuso nel suo lenzuolo la cui cerniera, con lo sgradevole rumore della chiusura, fa davvero da “cerniera”, oltre che da lacerazione, tra i diversi momenti della storia. E ancora – ma gli esempi sono molti – dopo che Thomas adulto ha incontrato Alfred in un caffé, casualmente, e ne straccia il biglietto da visita esclamando tra sé «Sparisci, ti cancello, sei morto», ecco l'inquadratura di Thomas cadavere; momento sottile, in quanto a morire non è Alfred ma Thomas, anche se ciò costituisce finalmente il trionfo di quest'ultimo, che con tale gesto beffa il rivale e riacquista finalmente quella ch'egli ritiene la sua vera identità. Solo così riesce a riscattarsi da un'esistenza vissuta per procura, causa di una continua nevrosi in quanto nell'ossessione dei confronti e dei rimpianti Thomas dimentica di vivere la sua vita.

Con il classico elemento dell'assurdo come categoria, che schernisce e rovescia ogni aspettativa umana: se Thomas è sempre vissuto divorato dall'invidia per l'esistenza di Alfred, sua di diritto, Alfred ha sempre invidiato quella di Thomas. L'inutilità degli sforzi messi in atto dall'uomo è totale: «Cosa sei diventato?», chiede Alfred al protagonista, verso la fine; e quello risponde: «Non so, forse quello che non sono mai diventato». Il caso, allora. Tutto nasce dal caso (lo scambio nella culla); per caso Thomas abbraccia la professione di geometra; per caso vede Evelyne, la ragazza che gli ricorda la sorellina Alice, la perde e la ritrova, per poi perderla definitivamente, per un soffio («Ti ho aspettato così tanto!» – dunque l'incontro era voluto fortemente anche da lei). Ed è proprio l'odiato coetaneo a portargli via un'altra volta, sia pure inconsapevolmente, il suo amore, Alice da bambino ed Evelyne da adulto.

Amore, dolore, odio. Tutto è irrazionale, tutto sfugge alle definizioni, e soprattutto ai tentativi di fermare le cose, di capirle. Lo stile del film rimanda chiaramente a questa oscurità (non è un gioco di parole) di cui è fatta l'esistenza, questa favola incomprensibile raccontata da un idiota. Nella famiglia in cui è allevato, Thomas è circondato da un amore effettivo, congiunto però al dolore e non ha importanza che quell'altra specie d'amore che i genitori non gli possono dare Thomas lo trovi nella sorella («Me ne frego che sei mio fratello. Sono innamorata di te»). Evelyne, che non a caso presenta Thomas ai suoi amici facendolo passare per suo fratello, gli dice al contrario (ma in realtà è a specchio): «Non voglio innamorarmi di te». Mario Milesi, nella sua recensione del film per un quotidiano bergamasco azzarda: «Che nasca da qui, a mascherare una pulsione incestuosa, l'“alibi” di crearsi un'altra identità misconosciuta?». In effetti questa “opera prima” (come lungometraggio spettacolare) di Jaco Van Dormael si ripropone come il film della sua vita. Tutto ciò che ha fatto prima d'ora lo conduce a questo traguardo. È stato regista di spettacoli per bambini e di film su handicappati, e già in un cortometraggio di fiction (È pericolo sporgersi) ha raccontato una vicenda che si svolge interamente nella testa del protagonista. C'è da aggiungere in proposito che Van Dormael dimostra di conoscerlo bene, il mondo dell'infanzia e quello degli handicappati: la psicologia dei bambini è interpretata con tenerezza e arguzia, e fa pensare un po' a certo Truffaut (anche Van Dormael, come il francese in Gli anni in tasca, utilizza una canzone di Charles Trenet), e Celestino, il fratello minore handicappato, esprime una immensa capacità di vivere e di godere delle cose (l'ora della merenda, il contatto con l'erba). Il regista parla, a proposito di Celestino, di «talento di vivere», che questi non perde mai diventando adulto. Quel talento di vivere che hanno Thomas bambino e Thomas vecchio («Un vecchio è due volte fanciullo», parola di Shakespeare), perché sono sinceri e appassionati: il Thomas che c'è in mezzo è un infelice che si macera nel suo tormento, perché non è l'altro, perché la sua vita è così e non cosà, eccetera.