Manhattan di Woody Allen restaurato

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Giovedì 11 maggio, esce restaurato e distribuito dalla Cineteca di Bologna, la nuova versione in 4K di Manhattan di Woody Allen realizzata a partire dal negativo camera originale. Siamo andati in archivio a rileggere la recensione scritta da Emanuela Martini all'epoca dell'uscita in Italia del film; il pezzo è pubblicata sul numero 191 di Cineforum disponibile in versione digitale su www.cinebuy.it.


«Capitolo primo. Adorava New York, la idolatrava smisurata mente. Ah no, è meglio la.... la mitizzava smisuratamente, ecco. Per lui in qualunque stagione questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin. Aaah... No, fammi cominciare da capo.
Capitolo primo. Era troppo romantico riguardo a Manhattan, come lo era riguardo a tutto il resto. Trovava vigore nel febbri
le andirivieni delia folla e del traffico. Per lui New York significava belle donne, tipi in gamba che apparivano rotti a qualsia
si navigazione. No stantio, roba stantia, di gusto... insomma dai, impegnati un po' di più, da capo. 
Capitolo primo. Adorava New York. Per lui era una metafora della decadenza della cultura contemporanea. La stessa carenza di integrità individuale che porta tanta gente a cercare facili strade stava rapidamente trasformando la città dei suoi sogni... No, non sarà troppo predicatorio? insomma guardiamoci in faccia, io questo libro lo devo vendere. 
Capitolo primo. Adorava New York, anche se per lui era una metafora della decadenza della cultura contemporanea. Come era difficile esistere in una società desensibilizzata dalla droga, dalla musica a tutto volume, televisione, crimine. Immon dizia... troppo arrabbiato, non voglio essere arrabbiato.
Capitolo primo. Era duro e romantico come la città che amava. Dietro ai suoi occhiali dalla montatura nera acquattata ma pronta al balzo la potenza sessuale di una tigre... no, aspetta, i ci sono.
New York era la sua città e lo sarebbe sempre stata»

La Rapsodia in blu di Gershwin che fino a questo punto ha fatto da discreto sottofondo esplode a occupare tutto il sonoro, mentre alle immagini di persone, gente, strade affollate, musei, parchi che hanno visualizzato il monologo fuori campo succedono, magnifiche e maestose, le immagini tradizionali di Manhattan, scorci di grattacieli tra boschi e nuvole, luminosità di Broadway, incredibili notturni da cartolina, riprese aeree della sopraelevata e infine fuochi artificiali che esplodono di notte illuminandola.

A Manhattan, Tracy ama Ike che ama Mary che ama Yale che è sposato con Emily ma ama anche Mary. Tracy, la diciassettenne spontanea, sognante e un po' lenta, fa il liceo, mentre tutti gli altri, uitratrentenni e quarantenni, comunque appartenenti ad un altro evo di idee», fanno di mestiere gii intellettuali. Tutti, in questo film, scrivono libri (Jill, l'ex moglie di Ike, che lo ha piantato per andare a vivere con un'altra donna e sta scrivendo un libro sul loro matrimonio), si propongono di scrivere libri (Yale, che da sempre deve finire un libro su O'Neil), tentano di scrivere libri (Ike, che abbandona esasperato il proprio lavoro di autore televisivo per scrivere un libro su New York), temono di non saper scrivere libri (Mary).

È un film dove la dinamica che regola il gioco delle coppie è indissolubilmente legata allo stato «culturale» dei protagonisti, dove l'impotenza creativa che investe la vita pubblica dei personaggi si riflette puntualmente sulla loro vita privata. Sarebbe riduttivo infatti considerare Manhattan un semplice film d'amore (o di amori), come sarebbe riduttivo considerarlo so lo una caustica presa in giro delle idiosincrasie e delle mistificazioni dell'intellighentia newyorkese. Tutto organizzato sui ritmi e i tratti della sophisticated comedy anni '30 (ma senza dimenticare i tempi meditativi e monologanti tipici di Allen), punteggiato di battute che a questa più o meno esplicitamente rimandano («è di Noel Coward, non mancano che i cocktails» o Mary definita «vincitrice del premio Zelda Fitzegerald», chissà per quali motivi «divulgativi» modificati per il pubblico Italiano in «sta diventando un film commedia anni '50, qualcuno dovrebbe cominciare a servire dei Martini» e in «premio Zsa Zsa Gabor»), Manhattan è in realtà un film amaramente rassegnato; è la calibrata, feroce e autocritica descrizione dello stato esistenziale e dello «stile» di vita che caratterizza una generazione insoddisfatta, la quale, viva essa nel cuore o alla periferia dell'impero, si caratterizza per la generalizzata incapacità a programmare secondo un «senso» definito la propria vita. Non è un caso, infatti, che il concetto che ricorre più frequentemente nel film sia quello del «mettere ordine nella propria vita», volontaristico, programmatico e sempre puntualmente disatteso, non solo per pigrizia e malafede, ma soprattutto per l'impossibilità a tradurre in azione la confusione e le tensioni interiori. Il gioco delle coppie così viene semplicemente a costituire la traccia narrativa portante del racconto interiore di tante solitudini ingarbugliate e tra loro perfettamente simili, dove nevrosi, ansie creative non realizzate, fraintendimenti etici, incomunicabilità, frustrazioni, mass-media, psicanalisi, miti culturali la fanno da padroni. Un film pieno, quindi, del temi che Allen è andato sviluppando con sempre maggior precisione lungo l'arco di tutto il suo lavoro di sceneggiatore, comico e regista, temi che trovano qui un'espressione particolarmente puntuale, una sintesi interna esemplarmente armonica.

APOCALITTICI E INTEGRATI

Che la satira, la critica (e l'autocritica) e la presa in giro delle mode culturali più o meno élitarie e dei loro promulgatori, gli intellettuali di mestiere, con tutti i loro tic, le loro manie, presunzioni e sproloqui, siano da sempre al centro dell'opera di Allen è cosa nota; tanto nota ed esplicita da cadere addirittura in sospetto di maniacale (e, in fondo, gratificante) autocompiacimento. Mai come questa volta tuttavia il soggetto e l'oggetto della satira si erano compenetrati con tanto esatta specularità; a nessuno, si spera, verrà più in mente di definire Allen "l'omino" (qualificazione assolutamente gratuita attribuita abbastanza indiscriminatamente a quasi tutti i comici americani) sbalzato in un arido universo intellettualistico, dove dominano psicanalisi, tecnologia, supponenza e sensi di colpa di varia natura. Allen è oggi, ed è sempre stato, parte integrante di questo universo; "diverso" solo in forza di un'innata goffaggine e di un più alto livello di consapevole alienazione. Ora, finalmente superate le dicotomie tra razionalità e istinto, tra newyorkesi e californiani, tra senso di inadeguatezza e autocompiacimento, Allen ricompone le figure di se stesso e dei suoi amici/avversari in una dimensione unica, di cui tutti costituiscono aspetti diversi ma non divergenti. La stessa palpabile diversità di Tracy trova la propria ragione essenziale nel dato puramente anagrafico e si nega, nel finale, come certezza in prospettiva o ipotesi di speranza futura, checchè ne di- cano quei critici che, sulla scorta del suo «È durato finora, ma che sono sei mesi, se noi ci amiamo ancora?», hanno prospettato un lieto fine, decisamente e sottilmente smentito dal But Not for Me che fa da sottofondo a tutto l'incontro conclusivo. E il trait d'union tra lo snobismo e la provocatorità pretenziosi di certi intellettuali e lo spontaneismo e tradizionalismo, altrettanto pretenziosi, di altri intellettuali sta proprio nelle due "liste", apparentemente contrastanti, in realtà coincidenti anche solo per il senso di gioco per happy few che in se stesse implicano: l'ormai celeberrimo elenco delle cose per cui vale la pena di vivere e l'accademia dei sopravvalutati. Indipendentemente dai gusti personali e dalle personali liste, non c'è dubbio che nelle esclusioni ed inclusioni di entrambi gli elenchi si riproponga la consueta dinamica tra avanguardia e cultura di massa, élite e pubblico popolare, kitsch e camp, dove è ormai arduo distinguere tra degradazione e recupero. È chiaro che includere tra i sopravvalutati Bergman, Fitzgerald o Kerouac non è più snob o artefatto che includere tra le cose per cui vale la pena di vivere Joe di Maggio, Marlon Brando o Frank Sinatra; la seconda lista, per il fatto di essere più semplice e quindi più "raffinata" della prima, non è certo meno in di questa; anzi, se mai la sua elaborazione passa proprio attraverso la provocatorietà dell'altra. Tutto questo per dire che i personaggi, per quanto colti in situazioni e momenti di diverso sviluppo personale, sono facce della medesima disfatta realtà, della medesima crisi, della medesima sospensione; infatti, ad esempio, l'istintiva antipatia di Mary si stempera im-mediatamente in una splendida anche se incoerente sensibilità Ike si distingue dagli altri solo per una più caustica tendenza all'autocritica e, quindi, una maggiore intransigenza e sincerità e coerenza con se stesso. l tempi del «Chiunque non morirà di spada o di carestia, morirà di pestilenza e allora perchè preoccuparsi di farsi la barba?» (1) sono passati per lasciare il posto all'indispensabilità di un rigore personale, di una lucidità comportamentale: lke, indicando uno scheletro, «Lui forse era una delle persone carine; lui forse ballava, giocava a tennis e tutto...e ora, guarda qui come ci riduciamo. Sai, è molto importante avere una specie di integrità personale; sai, io starò cosi in una classe in avvenire e voglio essere sicuro che quando sarò all'osso io verrò ben giudicato». Rigore personale cui tuttavia lke viene meno con il tardivo e opportuni- stico recupero di Tracy, immagine di un mito disperso di felice armonia, che lke stesso riconosce disperso e illusorio.

LE DONNE SONO DELLE MAGHE?

Cercare comunque il senso di questo film nelle parole espresse o inespresse o nelle storie intrecciantisi è quanto meno riduttivo, banale e rischia di accreditare semplificazioni gratuite e ottuse del genere di quelle espresse recentemente da Adele Cambria su Il Giorno. La Cambria, come molte femministe, capisce pochissimo di cinema, lamenta (giustamente) che la maggioranza della critica cinematografica sia fatta da maschi, ma (meno giustamente) non si preoccupa di andare a documentarsi sulle fonti più specializzate (per intenderci, le riviste, dove capita scrivano anche donne), rimanendo perciò a digiuno degli strumenti linguistici di lettura di un film e divulgando così un'interpretazione assolutamente pretestuosa e fasulla in base alla quale Manhattan sarebbe un «romanzo rosa per signorini», dove, sotto spoglie attualizzate, vengono riproposti antichi stereotipi femminili (la Fidanzata Ideale = Tracy, la Perversa Malafemmina = Jill, la Femmina Pericolosa = Mary), tutti offerti naturalmente alla gratificazione del maschio intellettuale. A parte la semplificazione forzata che l'applicazione di tali usurati modellini ormai comporta, a parte l'ovvia constatazione che tale programmatica semplificazione non giova certo alla causa del femminismo, sarebbe ora di smetterla di scambiare il cinema per una successione di parole e di cominciare a guardare i film, pur senza scomodare semiologia, linguistica e strutturalismo. Ora, basta guardare Manhattan per accorgersi di quanto Allen ami, apprezzi e stimi tutte le sue donne e di quanto, in fondo, disprezzi e sbeffeggi tutti i suoi uomini (se stesso compreso)! È logico che non sia un film femminista: l'ha fatto un uomo. Ma è altrettanto evidente che, se in Manhattan qualcuno dimostra la sopravvivenza di sensibilità e vitalità, sono certamente le donne; tutte: lesbiche, matte, intellettualoidi, ignoranti, tradizionali, incoerenti e presuntuose, tutte sempre intente a riaffermare (anche se ciascuna a modo suo) un'istintiva dignità. E questo Allen ce lo dice soprattutto con la macchina da presa, che le coccola, le segue, le sbalza in primo piano, non per farne stereotipi o «bambole di carne» o vuoti, bellissimi simboli, ma per circoscrivere e suggerire un universo più armonico (e non solo perché più "bello"), anche se faticoso e malinteso. «Le donne sono delle maghe?» andava chiedendo a tutti Alphonse di Effetto notte; è esattamente questa la sensazione che rimandano le immagini e i ritratti femminili di Manhattan.

CHI È DI SCENA? LO SCHERMO

Per sfuggire alla superficialità, anche celebrativa («il film più intelligente degli anni '70» o «degli anni '80», «una delle cose per cui vale la pena di vivere», ecc...), è indispensabile parlare espressamente di forma e stile. Anche perché in questi risiede il tratto unificante e più prezioso del film: l'assoluta semplicità e linearità narrativa. Tenendo conto dei "vezzi" costanti dell'autore (sovrabbondanza dei dialoghi, partenza asincrona del sonora tra una sequenza e l'altra, predilezione per passeggiate e conseguenti carrellate, raffinata cura dei particolari in interni ed esterni, voce fuori campo), questo film li fonde con un'omogeneità tanto piena da risultare non percettibile; è l'assimilazione completa della lezione del cinema americano classico, ripensato a filtrato attraverso le suggestioni cinematografiche europee care al regista (tanto Bergman negli interni, per esempio). La dinamica delle immagini è prevedibilmente lineare: negli interni, campi-controcampi, primi e primissimi piani; negli esterni, campi medi, lunghi e totali, piani d'insieme, carrellate; il montaggio è essenziale, tradizionalmente finalizzato ad accompagnare e fissare l'attenzione dello spettatore. È chiaro che sotto questa semplicità, che passa (oltre che per tutte le altre prove di Allen) per il caldo dinamismo di Io e Annie e per l'esasperata rarefazione di lnteriors, esistono uno studio e una preparazione dell'inquadratura tesi al raggiungimento di una precisione millimetrica. La semplicità tecnica non è quindi naïveté, ma frutto di un mestiere rigorosissimo, preziosismo essa stessa proprio in quanto perseguita come meta finale di un'elaborazione ricercatissima. Come ricercatissimi erano la sophistlcated comedy o certo cinema di Chaplin, non a caso entrambi unanimamente richiamati a proposito di questo film. E dichiaratamente ricercato è sempre stato il musical, altro richiamo obbligatorio per questo film dove nessuno canta, ma dove ogni azione è scandita da pause musicali scelte secondo una precisa connessione tematica (oltre che, naturalmente, ritmica): quindi, la Rapsodia in blu in apertura e in chiusura, But Not for Me nell'ultimo incontro di lke e Tracy, Strike up the Band nella corsa di lke a raggiungere Tracy, lt's Wonderful durante i più idilliaci momenti dell'amore di lke e Mary, e così via. Definire Manhattan come «il film più intelligente degli anni '80» riacquista perciò un senso non riduttivo o ridondante proprio in base a considerazioni di stile e tecnica, che dimostrano come sia possibile oggi fare ancora un grande e attuale cinema narrativo senza esasperazioni di sorta.

E questo, va detto, per un film tutto costruito su un'esasperazione tecnica, talmente macroscopica e invadente però da non risultare tale: la fotografia genialmente sfrontata di Gordon Willis. È sfrontato (e provocatorio) nell'epoca del cinema a colori usare il bianco e nero; ancora più sfrontato è indulgere con tanta insistenza sul tutto nero (la sequenza al Planetarium), sui marcatissimi controluce (ancora al Planetarium e nella maggior parte delle sequenze notturne), su pieni e vuoti rispettivamente tanto pieni e tanto vuoti da risultare entrambi sovrabbondanti. La superficie dello schermo, anneghi essa nel chiarore rarefatto di una parete vuota e dello scorcio di un interno o esploda in un deboradare di oggetti e particolari, acquista uno spessore "fisico", diventa una pre-senza del film. Ed è questa presenza che è utile alla connotazione dei personaggi (l'iperrealismo tutto coni gelato, creme e «sostanze» del bar che fa da cornice a Tracy, gli spazi isolati e rarefatti della casa di lke e quelli raccolti e chiusi della casa di Mary) ed addirittura indispensabile all'identificazione di uno di questi, ovviamente la stessa Manhattan, che è la storia, i movimenti di macchina, lo schermo. Protagonista assoluta del film, parte essenziale della psicologia dei personaggi, del loro abbigliamento e dei loro tratti comportamentali, Manhattan. (la città nella città) occupa tutto lo spazio visivo, non solo in certe stupefacenti inquadrature di esterni e nelle due splendide corse del protagonista attraverso la città, ma anche negli assemblaggi del luoghi deputati alla cultura, nel grandi magazzini e addirittura in certi ravvicinatissimi primi piani del personaggi. Amata e vezzeggiata è Manhattan che per prima scandisce i tempi di questo accorato e raffinatissimo musical.

 

1. W. Allen, I manoscritti della mano morta, in Citarsi addosso, Bompiani Milano 1976, f. 28.