Muito obrigados, O Rei!

Pelé (1940-2022)

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Ed ecco che si è chiuso un altro anno. Un anno che ha visto andarsene parecchia gente alla quale eravamo un po’ tutti affezionati, da Jean-Luc Godard ed Elisabetta II (se ne parla nel nuovo numero di «Cineforum», il n. 8 Nuova serie, attualmente in distribuzione), ma anche, nel mondo dello spettacolo, Monica Vitti, Angela Lansbury, Irene Papas, Sidney Poitier, Ray Liotta, Olivia Newton-John, Lando Buzzanca; e ancora Michail Gorbachev, Piero Angela, Mauro Forghieri e tanti altri, ultimo fra i quali il grande Pelé. Allergici come siamo ai coccodrilli, e tuttavia rimpiangendo la fine di un’epoca che sembra sia andata chiudendosi proprio in questo sciagurato 2022, vogliamo tuttavia ricordare e celebrare con grande affetto il genio sportivo e l’umana simpatia di quest’ultimo, riproponendo la recensione di Alberto Crespi a Fuga per la vittoria (1981; «Cineforum» n. 210, dicebre 1981), film al quale il Campione brasiliano partecipò come attore (e al quale regalò una sua favolosa rovesciata).


Fuga per la vittoria 
di John Huston

La prima impressione (rozza, se vogliamo) che suscita Fuga per la vittoria è di trovarsi di fronte a uno di quei bei “filmoni” che si facevano una volta: è nettissima la distinzione tra buoni e cattivi (come forse non lo era mai stata: ci sono addirittura due squadre che si fronteggiano), è chiara, inequivocabile la vittoria dei buoni (anche se il risultato numerico della partita è un pareggio), c'è perfino, per quanto marginale, una storia d'amore a lieto fine. Inoltre, in maniera assolutamente incontrovertibile, la distinzione morale buoni-cattivi è connotata anche politicamente, mediante una separazione storica (di qua gli alleati, di là i nazisti) sulla quale i pubblici di tutto il mondo possono tranquillamente concordare (ma c’è anche, tanto per non calcare troppo la mano un nazista “umano”: uno solo, quanto basta).

[…] Huston, tra le tante cose, è un regista romantico. Se non altro, è un regista i cui protagonisti possono quasi sempre, a buon diritto, essere definiti degli eroi. Forse proprio per questo Huston sembra lontano dalla nuova produzione americana, che pure ha nel ritorno all'eroe uno dei propri motivi ricorrenti: ma lo Snake Plissken di Fuga da New York, l’Indiana Jones dei Predatori, il Willard di Apocalypse Now, il Luke Skywalker di Guerre stellari non sono certo eroi nel senso classico del termine. E non tanto per i propri moventi, buoni o cattivi che siano, quanto per le loro valenze (sentimentali, ideologiche, umane) che sono praticamente ridotte a zero, assorbite nell’azione. Forse, dei giovani americani, solo Walter Hill e Peter Hyams sono, in questa chiave, assimilabili a Huston: il secondo (grazie al Sean Connery di Atmosfera zero) più del primo, perché lo stesso Hill punta spesso a un prosciugamento psicologico dei personaggi. Huston, invece, ha sempre avuto vivo il senso dell’azione moralmente guidata, anche se magari spregiudicata (Sam Spade nel Falcone maltese: «Quando uccidono un tuo collega, ci si aspetta che tu faccia qualcosa»). E poco importa che i suoi eroi siano spesso (non sempre) destinati alla sconfitta: anche se guidati da un movente socialmente “scorretto” (come i gangsters di Giungla d’asfalto, o il Roy Bean di L’uomo dei sette capestri), saranno sempre più umani dei propri aguzzini.

Un altro elemento che non va scordato a proposito del “romanticismo” di Huston: il ruolo dell’amore, che spesso è decisivo (si vedano due esempi lampanti come La regina d’Africa e L’anima e la carne). Altro fattore, stavolta strettamente connesso a Fuga per la vittoria: la tendenza di Huston a girare film udi squadra, (si pensi ancora a Giungla d’asfalto, a Gli inesorabili, a Gli spostati, allo stesso Tesoro della Sierra Madre dove pure la squadra è numericamente ridotta e tutt’altro che compatta). Ecco dunque che Fuga per la vittoria diventa una ripresa, esasperata o per meglio dire amplificata, di temi a lui da sempre cari. Una squadra di eroi che lotta per una giusta causa.

Ma, forse, ciò che è stato sentito come meno hustoniano è la conclusione trionfalistica. In realtà, Huston aveva diverse buone ragioni per scegliere un finale positivo che non è, del resto, né il primo né l’unico della sua carriera. Esisteva, in primo luogo, una fonte, quel Due tempi all’inferno, film ungherese di Zoltán Fábri che raccontava una storia analoga, ambientandola però in un lager in Ungheria (lo stesso paese, del resto, che ha coprodotto il film e dove si sono svolte le riprese): la partita tra ungheresi e nazisti si concludeva con la vittoria dei prigionieri, che venivano sterminati.

Ora, non solo non si vede perché Huston avrebbe dovuto rifare pedissequamente il film di Fábri. È subito chiaro che Fuga per la vittoria, con un finale opposto, sarebbe stato un film completamente diverso (a cominciare dal titolo). Quello di Huston, sarà bene chiarirlo, non è nè un film di guerra, né un film sui lager nella linea di Kapò o di La passeggera; e quello di Gensdorff non è un campo di lavoro, ma un campo di prigionieri militari. Fuga per la vittoria è un film avventuroso, costruito su tutta una serie di stereotipi dei film avventurosi che, organizzati in una struttura “in crescendo” che monta su se stessa, giungono senza sforzi apparenti allo stereotipo finale, l'evasione. Per costruire questa ascesa drammatica, Huston aveva chiaramente bisogno di una narrazione che preparasse, nei minimi particolari, un finale in cui gli eroi non avrebbero potuto incontrare che la salvezza.

Il film, in effetti, ha una struttura ben preci sa: è costruito come un’iperbole che tocca il punto più alto proprio nell'ultima inquadratura, la folla che esce dallo stadio sfumando nel blu pieno che incornicia i titoli di coda (che a loro volta, con la passerella dei calciatori, costituiscono un bell’omaggio ai vecchi finali dei film hollywoodiani). l titoli di testa, invece, sono accompagnati da immagini che danno un’illusoria impressione di apertura: due ampie gru che allargano lo sguardo sulla campagna percorsa dalla pattuglia, e un lungo totale, in campo lunghissimo, che però inquadra (non lo si scordi!) un campo di prigionia. Subito dopo, Huston comincia a concentrare la narrazione, dando sempre più un’impressione di claustrofobia: le baracche, le docce, il campo di calcio improvvisato nel cortile del lager (che, ovviamente, è un luogo limitato all’interno di un universo già di per sè concentrazionario), i reticolati da cui spesso sono condizionate le azioni dei personaggi (mentre Colby viene accompagnato via in macchina, Hatch lo segue per insultarlo, ma il suo movimento è bloccato dal cancello che si richiude). Man mano che la tensione narrativa sale, Huston concentra il tempo (la partita, che per forza di cose dura novanta minuti più l’intervallo, occupa circa mezz’ora di proiezione), ricorrendo, nel corso del primo tempo della gara, a un vero e proprio montaggio alla Griffith (le immagini della partita, e la corsa contro il tempo dei partigiani che preparano la fuga nelle fogne di Parigi), ma dilata lo spazio, allargandosi prima ai totali dello stadio, del pubblico e del gioco, e poi rompendo letteralmente questo luogo ancora “chiuso” con le immagini della fuga (che avviene, diciamo così, en plein air, dopo che i giocatori hanno rifiutato l’evasione nei cunicoli, che avrebbe riprodotto esattamente l'immagine di claustrofobia della prima parte: ecco dunque che l’avvenuta liberazione – funzione narrativa – trova un corrispettivo anche nelle coordinate spaziali in cui si svolge l’azione).

La fuga, occorre dire, era stata preparata da due evasioni speculari, nel corso del film. La prima precede i titoli di testa e dà quindi inizio alla narrazione: un ufficiale inglese che tenta di sfondare i reticolati e viene falciato dai mitra delle guardie. La seconda, all’inizio del secondo tempo (in posizione, quindi, rigorosamente simmetrica), è quella di Hatch; Huston fa partire le due scene in maniera identica, con un primo piano del fuggiasco: ma le prosegue in modo nettamente antitetico. Una gru verso l’alto segue immediatamente Hatch che si arrampica sul tetto della baracca per poi passare nella zona del campo riservata ai tedeschi, mentre lo sfortunato tentativo dell’inglese era scandito da una serie di angosciosi carrelli, quasi “rasoterra”, che seguivano l’uomo mentre strisciava verso i reticolati. Basterebbe questa piccola spia stilistica per capire subito che la fuga di Hatch è destinata a buon fine.

Il calcio e la televisione

La concentrazione temporale dell'ultima mezz’ora è però apparentemente contraddetta dalla sfasatura (o dilatazione) causata dall'uso del ralenti. Ora, è chiaro che Huston usa il ralenti come strumento, se vogliamo non originalissimo, di amplificazione drammatica (la parata di Hatch all’ultimo minuto), di sospensione quasi onirica davanti al “numero” di bravura (il giochetto di Ardiles che aggancia la palla di tacco e se la fa passare sopra la testa) o di entrambe le cose insieme (la rovesciata di Pelé che porta al pareggio e che è veramente, come suol dirsi, uno di quei goal che si fanno solo in sogno: il ralenti qui chiarisce molto bene la natura fiabesca della scena, natura che si può estendere a tutto il film). Soprattutto Il primo elemento è decisivo, se è vero che il ralenti viene usato nel secondo tempo, a scandire con toni epici (quasi mal retorici, a onor del vero) la rimonta degli alleati. Però, soprattutto a noi italiani abituati a risolvere alla moviola le discussioni della domenica pomeriggio, quelle immagini rallentate non possono non fare venire in mente qualcosa di televisivo. Così, a un’indagine più puntuale, ci accorgeremo che Huston usa diversi movimenti di macchina, diversi moduli stilistici che appartengono alla consuetudine delle riprese televisive di partite di calcio (e non a caso alla sequenza ha collaborato Robert Riger, da anni regista di trasmissioni sportive per la rete tv americana Abc). Si veda la carrellata iniziale, durante gli Inni, sui volti dei giocatori, praticamente d’obbligo in ogni telecronaca di incontri internazionali. O i totali del campo, i dettagli del gioco ripresi con la camera ad altezza d’uomo, per non parlare del replay usato in occasione del goal di Pelé.

Potremmo tranquillamente affermare che, in sede di ripresa, la sequenza della partita non presenta assolutamente nulla che non si sia visto, più di una volta, in televisione (a parte un paio d’inquadrature dall’interno del terreno di gioco, che in una vera partita sono ovviamente impossibili). Huston, ovviamente, interviene in sede di montaggio, non solo concentrando le azioni principali (ma questo sarebbe ancora un procedimento televisivo, quello della sintesi in differita) ma intervallandole con brevi e significativi flash sul pubblico (i nazisti soddisfatti, gli ufficiali alleati prima preoccupati, poi costernati e infine esultanti, il pubblico francese che guarda prima contratto, poi sempre più partecipe). Ma è un fatto, secondo noi, che il regista si diverte in più di un'occasione a mimare il linguaggio televisivo; e ciò non deve meravigliare in un americano: pensiamo solo al fatto che gli stadi americani per il calcio (soprattutto quello dei Cosmos di New York, e sarà bene ricordare che Werner Roth – nel film Baumann, capitano dei tedeschi – è uno dei più famosi giocatori statunitensi di questa società) sono attrezzati con tabelloni luminosi, sui quali uno schermo consente di rivedere immediatamente le azioni salienti. Per cui un replay “in diretta” come quello del goal di Pelé, se è accettabile per uno spettatore europeo, è addirittura ovvio per un americano.

Tutto ciò, però, ci deve portare a un altro discorso. Questa analisi delle citazioni televisive presenti nel film dovrebbe rendere addirittura lampante questa considerazione: in Fuga per la vittoria non c'è il calcio, ma la sua rappresentazione iconica, per immagini. Non so lo perché il film, ovviamente, rappresenta (spettacolarizza) il calcio non appena lo investe con il proprio linguaggio, ma anche perché lo ritrasmette allo spettatore mi mando il linguaggio di un altro medium che al calcio si applica da tempo immemorabile, la tv. Quindi, chi cercasse in Fuga per la vittoria un film “sul” calcio, o comunque una rappresentazione veritiera (quasi documentaristica) di questo gioco rimarrebbe deluso. In Fuga per la vittoria, il calcio è presente attraverso i suoi stereotipi, come fenomeno spettacolare ulteriormente spettacolarizzato. Se si pensa che la partita è finta, bisognerebbe parlare di finzione al quadrato.

Il calcio, però (e il film non lo ignora, tutt’altro) ha anche una dimensione agonistica e un proprio codice di comportamento. In questo senso lo sport, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra e permette di inserire Fuga per la vittoria nell’universo dei “film sportivi” nel senso più profondo del termine: quelli in cui lo sport non è argomento accidentale, ma filosofia di vita, struttura portante della narrazione. Si parlava prima di film “di squadra”: Fuga per la vittoria è tale in senso stretto, e l’agonismo in sito nel calcio diviene metafora (e, insieme, esplicazione) di una lotta per la vita: il campo di calcio diviene terreno di scontro tra due opposte concezioni del mondo. Ma, soprattutto, è il codice sportivo a influenzare il film nelle sue strutture profonde: se le relazioni tra i personaggi, lette In senso orizzontale, dipendono da coordinate politiche (tedeschi, alleati, partigiani, eccetera) o gerarchiche (ufficiali, soldati, eccetera), non è possibile non notare come il film sia attraversato da una rete di rapporti verticali (e, quindi, intersecantisi con i suddetti) che si basano su una coordinata diversa: quella della lealtà sportiva.

In questo senso, “sportivi” sono i giocatori, Colby per primo, che rifiutano la fuga per tentare di vincere, ma “sportivo” è anche il maggiore Von Streicher (ex calciatore) che infatti, al goal di Pelé, è l’unico tra i tedeschi ad applaudire: e “sportivi” sono gli spettatori francesi, che chiedono la vittoria e sarebbero (è sottinteso) delusi dalla fuga (come noi, del resto; la presenza del pubblico nel film è fortemente liberatoria nei confronti del pubblico in sala: loro, sullo schermo, gridano quello che vorremmo gridare noi). Nello stesso modo, sono “non sportivi” i tedeschi che ricorrono all’inganno per vincere, ma sono “non sportivi” anche gli ufficiali inglesi che criticano Colby, e lo è altrettanto Hatch, fino al momento in cui gli altri giocatori lo convincono a non fuggire. Lo sport diventa quindi elemento rivelatore di una rete di rapporti morali che vanno al di là di (o si incrociano con) quelli politici e di classe. Questo giocare sugli aspetti agonistici e morali di uno sport che bene o male tutti abbiamo giochicchiato (coinvolgendoci quindi come “praticanti” e non solo come ccspettatori,) è forse uno dei motivi profondi per cui Fuga per la vittoria non urta, non appare retorico nonostante alcuni momenti indubbiamente declamatori, e cattura l’attenzione grazie a un acuto dosaggio di tutti questi fattori, che esplodono nel finale ma sono latenti per tutto il film. In questo senso, senza dubbio la scena madre è il momento in cui i giocatori rifiutano la libertà e decidono di tornare in campo (è solo allora che lo sport vince la sua battaglia), ma la frase che faccia da emblema al film potremmo trovarla prima, in un dialogo tra Colby e Von Streicher, allorché l’inglese chiede al tedesco dimettergli a disposizione alcuni giocatori dell’Est europeo. Von Streicher risponde: «Non è possibile. Sono nei campi di lavoro… Ufficialmente, essi non esistono come uomini». E Colby ribatte: «Come uomini forse no. Ma esistono come giocatori. E lei, come sportivo, deve darmi almeno una possibilità di vincere».