Venezia 1981: Leone d'oro a Ti ricordi di Dolly Bell?

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In occasione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia che inaugura domani la sua 73esima edizione, abbiamo deciso di tornare nell'archivio di Cineforum e di andare a rileggere cosa si scriveva dal Lido in due annate specifiche, il 1981 e il 1982, quando a portarsi a casa il Leone d'oro furono due registi il cui ritorno in concorso quest'anno è, a dir poco, atteso: Wim Wenders e Emir Kusturica.
Da Cineforum 207, settembre 1981 un estratto di 
Dopo tante storie, ricompare la Storia di Gianluigi Bozza. 


Qualche noterella, frammentaria, di premessa per delineare lo scenario. Innanzitutto sullo sfondo lo scarsamente rilevante livello medio dei film (soprattutto quelli in competizione) a confermare quanto estesamente e con rattristite convergenze è stato riferito da Cannes. È vero che praticamente tutti gli osservatori italiani hanno smussato le ruvidezze del grigiore generale, tanto che alla fine, e subito dopo (su quotidiani e nei luoghi Rai), sono esplose vivide valutazioni di ritrovate giovinezze. Ma è vero anche che vi sono stati pochi film buoni, intendendo precipuamente pochi film interessanti, di quelli che ci si rammaricherebbe di non avere visto. E in più il numero grasso, con le tante incertezze dell'ignoto, che permette di accantonare le pellicole più insignificanti, come Les jeux de la comtesse Dolingen de Gratz della francese Catherine Binet, come Chaalchiira dell'indiano Mrinal Sen e come Zvezdopad del russo Igor Talankin; ma che obbliga, al contempo, a liquidare con poche parole opere di un certo spicco non in competizione (inserite nelle se zioni della cosiddetta «Officina veneziana» e di «Mezzogiorno/Mezzanotte»). Tra queste ultime vale la pena rammentare il documentario antropologico-etnologico di Jean Rouch e Germaine Dieterlen Ambara Dama che descrive dettagliatamente, con un'ottica che riesce a temperare il rigore scientifico con la suggestione poetica, i tre giorni principali di una cerimonia che celebra, ogni cinque anni, la fine del lutto dei morti. 

Pur con tutti questi vincoli necessari e opportuni, va rimarcato che i film nè italiani nè hollywoodiani hanno «vinto» il festival di Venezia con giudizi praticamente plebiscitari (dai premi importanti della giuria ufficiale, a quelli meno ambiti e meno compromessi di giurie autonome, magari culturalmente e ideologicamente manifestamente orientate); ma l'hanno vinto soprattutto certi film invece che certi altri, l'hanno vinto i film definibili «impegnati» piuttosto che «disimpegnati», quelli che fanno i conti in prima istanza con processi che non sono quelli della cultura multinazionale dell'industria culturale in perenne sommovimento di adattamento ai mercati e di produzione degli stessi. In generale si può affermare che quasi tutte le pellicole «altre» fanno riferimento alla storia come quadro portante entro il quale sviluppare riflessioni, racconti inzuppati di nostalgia, di passionalità, di fantasia, elaborare sofferti percorsi di ricerca di verità scomode e di accomodanti naufragi melodrammatici, rivisitare materiali apparentemente ammutoliti con l'entusiasmo di chi riesce a farli parlare. Fatto solo apparentemente curioso in un periodo in cui la preoccupazione prevalente sembra quella di ricordare emotivamente o di non ricordare, di comprimere la memoria in territori non tormentati da gibbosità critiche, da sensi di colpa, dalla consapevolezza di fallimenti, dal riconosci mento delle mediocrità del presente.

Il fortunato esordiente jugoslavo Emir Kusturica (s’è guadagnato il «leone» per le opere prime e seconde e una licenza) con Sjecas li se Dolly Bell (Ti ricordi di Dolly Bell?) percorre nel cuore degli anni Sessanta il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza di un ragazzo sedicenne. Siamo in una Sarajevo in cui non manca un temperato, ma diffuso malessere sociale: la famiglia del protagonista sogna un nuovo appartamento nelle case popolari in costruzione nell’orizzonte periferico della città, un piccolo gangster locale sfrutta delle giovani avviandole alla prostituzione e alle miserie dell’emigrazione clandestina in Italia, i sogni di tutti sono concentrati sugli oggetti-messaggi della civiltà consumistica occidentale rappresentati dalle prime moto, da Celentano con Ventiquattromila baci e da Blasetti con Europa di notte.
Kusturica, con una tenerezza che felicemente s’accompagna ad un’ironia rispettosa, rivisita quei giorni con dolcezza anche nelle loro pieghe amare (il padre del protagonista muore lasciando in eredità la sua fede semplicistica e un po’ buffa nel marxismo, nella Jugoslavia socialista, nel proprio presente), nelle loro ambivalenze (il primo amore, le delusioni, la scoperta che il dolore getta ombra su qualsiasi aspirazione e nel loro inarrestabile desiderio e capacità di vivere, di fondare un’identità, di delineare un’ipotesi praticabile di futuro. Il film non è propriamente originale nel cogliere i chiaroscuri del passaggio dalla adolescenza alla giovinezza, lo è forse un poco di più nel tratteggiare gli adulti e al cune situazioni d’ambiente: le corde dell’autore sono quelle della nostalgia sincera criticamente amorevole, del ripensare al «come eravamo» perlustrando gli angoli della memoria e non del perché eravamo come e dove