Concorso

Beuys di Andres Veiel

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Andres Veiel, classe 1959, nella sua carriera cinematografica (è anche autore teatrale), si è occupato quasi esclusivamente di documentario. Come molti autori della sua generazione, Veiel ha lavorato, in almeno due occasioni, sulla storia della Germania occidentale negli anni '60 e '70, sulle tensioni politiche e sociali, sulla rivoluzione a mano armata della RAF: Black Box BRD (2001), in forma documentaria; Wer wenn nicht wir, che nel 2011 fu in concorso qui a Berlino, premiato con il premio Alfred Bauer ed è, ad ora, il suo unico film narrativo. Questo suo nuovo lavoro su Joseph Beuys non si discosta più di tanto da questo solco. Quella attuata da Beuys sulla scena della produzione artistica del secondo '900 è, senza se e senza ma, una rivoluzione: "Kunst als Revolution", (Arte come rivoluzione), è uno dei motti più celebri dell'artista. Un'operazione copernicana rispetto al fatto artistico, che non è più strettamente manufatto, ma anche rispetto allo statuto di artista "jeder Mensch ist ein Künstler" (Ogni uomo è artista). "La rivoluzione siamo noi" è il motto che accompagnava la prima personale italiana (1971) di Beuys: l'idea era che quelle parole concentrassero un nuovo valore antropologico dell'arte, che partiva dalla partecipazione democratica, dalla responsabilizzazione dell'uomo nei confronti della società, arrivando a parlare di "scultura sociale". E in fondo, se gli scritti dell'artista tedesco fossero raccolti in maniera sistematica, non sarebbe così peregrino parlare di "Critica della ragion Plastica", anche per la riflessione profonda sul valore e sulla teoria marxista: "Kunst = Kapital".

La sfida affrontata da Veiel nel dare forma a questo film è stata innanzitutto legata a quale narrazione offrire della vicenda beuysiana, lavorare su cronologie, diacronie, durate: dalle 300 ore di film e video, dalle altrettante ore di registrazioni audio, dai giacimenti importanti di foto delle singole azioni era assolutamente possibile trarre un documentario biografico tradizionale, magari soffermandosi sugli anni della gioventù, la passione per le scienze naturali legata alla casuale scoperta di Linneo; gli anni nella Luftwaffe e l'incidente in mezzo alla steppa al quale sopravvisse per il rotto della cuffia, salvato da dei nomadi tatari, che lo avvolsero nel grasso animale e nel feltro, materiali che resteranno basilari in molti dei suoi interventi; per poi cercare di spiegare come questo episodio avesse avviato Beuys a una riflessione sul proprio ruolo in direzione quasi sciamanica, alla sedimentazione di un'immagine che è una divisa inconfondibile (gilet, cappotto e l'immancabile cappello di feltro). Tutte (o quasi) informazioni che ci sono, organizzate però in un ordine che non è mai strettamente cronologico, più spesso analogico, in una struttura caleidoscopica (che non aiuta esattamente lo spettatore meno informato). Un'analogia che riprende il metodo assiomatico, le equazioni, gli schemi che vediamo tracciare all'artista stesso negli anni dell'insegnamento accademico. Un'analogia che nasce dalla presenza quasi continua, al centro dell'inquadratura, dell'artista stesso; lo sguardo spesso diretto verso il dispositivo di ripresa, e sembra volerlo trapassare. Una presenza che raggiunge l'apice, paradossalmente, nella documentazione che Veiel riporta di I Like America and America Likes Me, 1974, l'incontro, durato 5 giorni e non privo di rischi, tra Beuys, avvolto nel feltro e trasfigurato in corpo quasi astratto, e un coyote. La presenza  evidenziata da Veiel è quella di un'energia che sembra, a trentun'anni dalla morte, inesausta, anche sul potenziale squisitamente politico e a suo modo eversivo (un'idea di democrazia diretta che è, nel bene e nel male, così attuale), con tutte le ambiguità e i sospetti di personalismo che un personaggio del genere poteva sollevare, dagli anni della cattedra alla Künstacademie di Düsseldorf a quelli dell'impegno con il partito dei Grünen. Mancano all'appello, e non è difficile immaginare beghe di Stiftung, fondazioni e diritti (quanto di più contrario alla filosofia beuysiana), gli anni italiani, soprattutto quelli a Bolognano, comunità di cui Beuys divenne cittadino onorario, anni che smentivano le obiezioni di chi, soprattutto dentro al movimento Fluxus, riteneva le sue opere "troppo tedesche", non sufficientemente internazionaliste. Ma d'altronde è l'opera stessa di Beuys a forzare le strutture dello spazio e del tempo degli uomini, non a caso, su una di queste, Veiel torna ripetutamente, e giustamente: 7000 Eicken, o 7000 Querce, presentata nel 1982 a Kassel, è un progetto che arriverà a compimento, si stima, tra 300 anni, quando le querce saranno tutte piantate e giunte a completa vegetazione. Quando molto di quello che si è detto su Beuys sarà lontano, fuori fuoco, anche questo onesto film, al quale è stato affidato il compito di rappresentare la Germania in questo stanco Wettbewerb della Berlinale 2017.