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Golden Exits di Alex Ross Perry

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Si tratta di un topos letterario e cinematografico di lunga tradizione: una coppia o una famiglia borghese ormai sorpassata la mezza età che inizia a sentirsi consumata dalla routine e da un’angoscia senza nome e senza alcuna ragione concreta, fino a che l’arrivo di un elemento esterno non inizia a scompaginare le carte e a sconvolgere la vita. I nomi potrebbero essere dei più vari: da Teorema di Pasolini, a tantissimi degli ultimi film di Woody Allen (Match Point, Midnight in Paris, Vicky Christina Barcelona, Magic in the Moonlight etc.) a While We’re Young o Mistress America di Noah Baumbach. Perché l’angoscia è proprio questo: l’emergere di un senso di alterità, estraniamento, e inquietudine che però non si “attacca” a niente di particolare. È una sorta di male radicale per la sola ragione di essere a questo mondo: quello che Heidegger definiva «l’allontanamento dall’ente nella sua totalità».

È per quello che nel momento in cui compare un oggetto o una persona concreta e particolare che viene investita del nostro desiderio (qualora fosse anche un desiderio di paura) l’angoscia propriamente detta viene a mancare: perché viene “schermata”; come se venisse costruita una difesa nei confronti di questo nulla radicale.

È questo quello che accade in Golden Exits di Alex Ross Perry, presentato nella sezione Forum della Berlinale (dopo un passaggio al Sundance Film Festival qualche settimana fa): la vita di Nick (Adam Horowitz), nevrotico archivista di Brooklyn di mezza età, e Alyssa (Chloë Sevigny), sua moglie, viene sconvolta dall’arrivo di una giovane e piacente stagista (Naomi/Emily Browning) che viene assunta per terminare un lavoro di catalogazione. Tuttavia in quella che in molti altri casi sarebbe stata una storia di proiezione di felicità idealizzata dell’uomo sulla giovane donna, subisce qui un andamento da anti-climax. Già nella primissima scena del film nella quale Naomi viene invitata a cena a casa di Nick e Alyssa tutto è perfettamente chiaro: basta vedere l’imbarazzo delle risposte tra i due coniugi, i piccoli tic verbali, le reazioni innervosite e i silenzi nella conversazione per capire che il desiderio di fuga da parte di Nick al di fuori della propria relazione matrimoniale è già perfettamente visibile.

Perché il problema di Golden Exits non è tanto lo svolgimento di un arzigogolato e macchinoso plot nel quale vengono coinvolti moltissimi personaggi secondari (la sorella di Alyssa, oltre a un vecchio amico di Naomi e la relativa moglie che “raddoppiano” i piani della gelosia…), quanto il fatto che a tutti sia chiaro che Naomi è semplicemente il luogo-tenente di un’esperienza di angoscia pervasiva e onnipresente. Che il desiderio che la investe, è già da subito colorato d’impossibilità. Che più che di una banale questione di gelosia e tradimenti si tratta di qualcosa di molto più profondo e radicale.

Alex Ross Perry, esponente di quella sorta di “movimento” cinematografico americano indipendente definito mumblecore (cioè film a bassissimo budget, spesso girati in interni in digitale o in formati poveri come il 16mm e con una recitazione quasi completamente improvvisata), così come il suo più talentuoso collega Noah Baumbach, ha ben chiaro che per riuscire a mostrare l’angoscia di una generazione di trentenni che fanno lavori creativi in città come Brooklyn o Chicago senza cedere all’accusa (che pure gli viene costantemente mossa) di snobismo hipster non si può prendere la via del rispecchiamento sociale quanto quella dell’approccio linguistico o formale. Golden Exits è girato quasi esclusivamente in due o tre soggiorni, in un paio di bar o nello scantinato di Nick: cinematograficamente ciò che vediamo sono soltanto delle persone che si parlano addosso, che bevono un bicchiere di vino o una birra e che raccontano quello che sentono o che gli è successo. I dialoghi sono cioè ridotti a commento di eventi di vita: il cinema smette di essere l’immagine di un azione per farsi meta-riflessione o nota a piè pagina, come accade ai romanzi di David Foster Wallace.

È come se i personaggi si vedessero vivere, producendo quell’effetto di distanziazione ironica e riflessività che è così tipico della cultura urbana americana mid-brow, e che rimanda a quella costante ossessione riguardo all’autenticità della propria vita: se non è più possibile vivere in modo immediato, è possibile credere ancora nella propria vita? Nella propria routine urbana deprivata di desiderio? Nella propria relazione matrimoniale? (significativamente nessuna delle coppie del film ha dei figli, tanto è incombente l’impossibilità di credere al futuro).

Il tempo che passa allora, così come il confronto con la morte (onnipresente in un film pieno di vecchie fotografie, vecchie pellicole, vecchi macchinari) sono il tessuto d’angoscia che attraversa l’intera vicenda rispetto a cui l’arrivo di Naomi rappresenta un mero punto di coagulo. Ma se in Woody Allen l’arrivo della vitalità di una giovane ragazza è sempre motivo di idealizzazione di quello che la vita sarebbe potuta essere ma non è stata (ma per Allen vale sempre la pena di illudersi anche se si va incontro a un sicuro disincanto), in Golden Exits l’inganno è già da subito svelato.

È per quello che l’atmosfera che si respira è così cupa e finisce per ricordare più il Bergman di Scene da un matrimonio che l’ultimo Allen. L’angoscia insomma non c’è modo che venga “schermata” né è possibile pensare per un nevrotico ultra-quarantenne che un’improbabile storia d’amore con una bellissima venticinquenne possa in qualche maniera rimettere in sesto le proprie aspettative di vita. Forse perché l’unico modo per non denegare l’angoscia del proprio stare al mondo è proprio quello di imparare ad averci a che fare e non di pensare all’idea che possa esistere una via di fuga. Insomma di Golden Exits in questo mondo, non se ne vedono proprio.