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L’empire de la perfection di Julien Farau

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Gil de Kermadec e Serge Daney. Cinema e tennis. Due mondi messi in connessione dalle loro intuizioni, dall’approccio al secondo come metafora del primo, dall’utilizzo del primo come mezzo per raccontare, analizzare, spiegare la perfezione del secondo. Queste connessioni sono il soggetto di L’empire de la perfection di Julien Farau, una sorta di saggio, di documentario, di divertissement intellettuale che grazie al materiale inedito contenuto nei tagli di pellicola inutilizzati dell’archivio di de Kermadec racconta uno, forse il più grande, tennista di tutti i tempi: John McEnroe. O meglio, racconta la più dura delle sfide della sua carriera: la conquista (mancata) del Roland Garros.

Peter Fleming, storico compagno di doppio di John McEnroe, disse: "la miglior squadra di doppio del mondo è John McEnroe con chiunque altro", sintesi icastica di cosa McEnroe sia stato per la storia del suo sport. L’uomo schivo, l’atleta refrattario agli allenamenti, il campione bizzoso sempre in lotta contro se stesso prima ancora che con chi è in campo al di là della rete, il talento capace di determinare un’era. Unico protagonista in un teatro, quello del torneo della Porte d'Auteuil, in cui gli avversari non sono che comparse (almeno finché non è Ivan Lendl a riprendersi il suo ruolo di comprimario). Questo era John McEnroe e questo mostra in modo intelligente e inusuale (accompagnato dalla puntuale e ironica voce narrante di Mathieu Amalric) il film di Farau. 

Ma McEnroe non è però l’unico protagonista di un film che ha ambizioni intellettuali ben più alte che non “solo” raccontare un grande campione. Lo è insieme a lui de Kermadec naturalmente e la creatività meticolosa e ostinata del suo cinema; lo sono i tecnici con cui lavorava, l’operatore nascosto nella fossa e minacciato dalle palle come dalle parole aggressive di McEnroe infastidito da quell’occhio indiscreto, l’indefesso fonico che implacabile, senza reagire agli attacchi diretti del tennista, continuava indomito a registrare i rimbalzi delle palline, il rumore delle strisciate delle suole sulla terra rossa, i colpi secchi delle corde in tensione, e poi ancora le sue lamentele, le richieste, i borbottamenti, il disappunto.

Come se volesse capire cosa passa davvero nella testa di quello scalpitante fenomeno e insieme sondare le potenzialità di un mezzo non esattamente “al suo posto”, la macchina da presa sta fissa su di lui. McEnroe è infatti come se giocasse contro un muro, incurante eppure infastidito da tutto, attentissimo nel costruire e gestire la tensione e la sua messa in scena, necessaria anche questa alla ricerca della perfezione. Perché in fondo è questo che rivela il cinema nel suo essere al contempo fuori luogo e profondamente immerso nella logica del gioco: e cioè che la messinscena della performance sportiva, in quanto gesto unico e irripetibile, non è pensata per essere riprodotta, ma è pur sempre perfezionabile con, attraverso, dentro la sua stessa narrazione.