Concorso

DAU. Natasha di Ilya Khrzhanovsky e Jekaterina Oertel

focus top image

Natasha Vladimirova, nata nel 1907 nel villaggio di Rubezhnoye, nei pressi di Kharkov, Ucraina. Arrivata a Mosca nel 1925 per tentare un’audizione per entrare alla Scuola Centrale di Teatro. Non viene presa, ma le viene offerto un lavoro al bar della stessa scuola. Di lì a poco ha un figlio, Stanislav. Nel 1942 comincia a lavorare nel caffè dell’Istituto DAU.

Chi ha già visto il film obietterà che non si vede niente di tutto questo, in DAU Natasha di Ilya Khrzhanovsky e Jekaterina Oertel: o meglio, la protagonista (Natalia Berezhnaya), compare già in medias res, alle prese con la gestione del locale interno all’Istituto, e con l’addestramento della più giovane e inesperta Olga (Olga Shkabarnya). Le informazioni sul suo passato e sulla sua improvvisa uscita di scena, nel 1952, poco dopo i fatti illustrati nel film, dopo essere stata denunciata per sospetta attività di spionaggio, si desumono (per ora) solo sulla piattaforma https://www.dau.com, archivio digitale del progetto DAU, incominciato da Khrzhanovsky nel 2005, quando aveva all'attivo solo 4, presentato l'anno prima a Venezia.

Dopo aver tentato centinaia di provini con attori professionisti, Khrzhanovsky ha optato per la scelta più radicale di coinvolgere solo attori non professionisti, persone con le condizioni di partenza più disparate, e le ha calate nelle atmosfere e in mezzo agli oggetti di un istituto scientifico sovietico, con l’idea iniziale di realizzare una biografia di Lev Landau – fisico russo dalla fama di libertino, premio Nobel nel 1962 – convertitasi ben presto in un lavoro multidisciplinare dalle proporzioni epiche ed inquietanti, in cui il cinema riveste un ruolo fondamentale, ma non esclusivo.

Un progetto di mimesi discronica, nel quale i  400 coinvolti nei ruoli principali e le migliaia di comparse erano trasferiti, in Ucraina, su un set di 12000 metri quadri, l’Istituto del professor Landau ricostruito nei minimi dettagli, e invitati a svolgere le proprie mansioni abituali, a vivere la vita secondo le proprie attitudini: difficile dire “la propria vita” o “come sempre”, perché le condizioni, immersive, erano quelle di una riproduzione del sistema sovietico, dal 1938 al 1968, limitazioni della libertà incluse (qualcuno lo definì “il Truman Show sovietico”). Un progetto di cui si è raccontato molto, sul quale sono circolate voci, alimentate da denunce anonime e dall’aura di guru che lo stesso Khrzhanovsky irradiava (e continua a irradiare) su un gruppo di fedelissime partecipanti: un’aura pericolosa, soprattutto nell’era del #metoo. Ne aveva parlato anche Gianluigi Ricuperati nel suo romanzo EST (2018),  dopo aver sottoscritto una clausola di riservatezza. Un progetto che conta 700 ore di girato, dalle quali Khrzhanovsky ha ricavato dieci lungometraggi (otto sono ancora in postproduzione), e i materiali multimediali per una mostra, oltre che per la già citata piattaforma, in predicato di divenire interattiva.

È abbastanza chiaro: la “scommessa” della Berlinale, che mette in concorso DAU. Natasha e propone anche DAU. Degeneratsia (per tanti versi più impressionante, e sarà difficile non parlarne, in futuro), pur relegandolo al rango di presentazione speciale, era innanzitutto quella di puntare sullo statuto di autonomia di un capitolo estrapolato da uno dei progetti culturali, non solo cinematografici più ingombranti dell’ultimo ventennio. “Scommessa” in qualche modo dettata anche dall’interesse rinnovato per il microcosmo DAU, qualche anno fa dato da molti per fallito, e invece ripresentato lo scorso anno a Parigi al Théâtre du Châtelet, più vivo che mai, in forma di percorso esperienziale.

DAU. Natasha è un film che si focalizza quindi su una di quelle 400 persone che hanno accettato il patto con Khrzhanovsky: Natalia Berezhnaya, entrando nell’esperimento, verrebbe da dire nel “reality di ricostruzione”, ha accettato di vestire e subire il reenactment del sistema sovietico sulla propria pelle. In questo senso il ruolo di Jekaterina Oertel, truccatrice e costumista investita ufficialmente del ruolo in fase di post-produzione, è autenticamente registico; così come è fondamentale l’apporto del 16mm desaturato, la macchina tenuta praticamente sempre a mano, del veterano Jürgen Jürges (che per questo lavoro si è intascato l’Orso d’argento).

Natasha accetta di sviscerare la propria intimità, le proprie frustrazioni, in conversazioni con la giovane sottoposta Olga, che ricordano indirettamente, per certi accenti crudeli, Le serve di Genet, in un crescente (e per niente simulato) consumo di vodka e di primizie sottratte alla dispensa dell’istituto, tra insulti veementi e inattesi slanci di solidarietà.

Accetta che venga messa a nudo, letteralmente, la propria intimità con un altro dei partecipanti al progetto, Luc Bigé che nel film è uno scienziato francese (è un ex-biochimico con una certa notorietà in Francia per le sue teorie simboliste). E di questa azione, dettata da un sentimento sincero ma valutata dall’autorità (Vladimir Azhippo) come un tradimento, paga ben presto le conseguenze, sul proprio corpo.

È dunque il corpo di Natasha (e ovviamente anche quello degli altri personaggi, anche se in misura meno centrale), non solo il suo nome, a caricarsi sulle spalle il senso del film. È il corpo, come lo sarebbe al centro di un ritratto pittorico, e per certi versi, soprattutto nelle scene più intime tra la donna e Luc viene da pensare a certi intrecci di Lucien Freud. E, interpretato come un ritratto, il film è robustamente autonomo: il ritratto di una resiliente in bilico tra la gioiosa vitalità della prima parte e la repressione, la violenza radicale, di nuovo sul corpo, della seconda. Un ritratto che si profila sulla sfuggente linea di demarcazione, data dalla natura del progetto a monte, tra finzione e documentazione.

Documentazione, verrebbe da dire, soprattutto della verità del personaggio, della nuova consapevolezza acquisita partecipando al progetto: «amerai ancora?» le domanda Olga durante uno dei loro scambi pepati «Certamente: quella sensazione non se ne può andar via». Come non se ne può andare la sensazione di intensa complicità che si prova di fronte alla scena di sesso tra Natasha e Luc esplicita e evidentemente non simulata: un intreccio di corpi dai quali emerge, se non l’amore, la gioia vera, anche se destinata a durare poco.