Encounters

The Girl and the Spider di Ramon e Silvan Zürcher

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C’è il disegno della pianta di una casa. Linee orizzontali e verticali che delimitano degli spazi e linee curve che indicano la loro possibilità di essere messi in comunicazione. Un disegno che rivela quello che non si vede: lo spazio. Rivela ma non anima. Si tratta infatti di un progetto che solo l’esperienza abitativa renderà vivo e vitale. Non si tratta ancora di una rappresentazione quanto piuttosto, come diceva Le Corbusier, di “una algebrizzazione arida dell’occhio”. Quello spazio vuoto, "arido" prende vita nel corso di Das Mädchen und die Spinne (The Girl and the Spider), secondo film di Ramon e Silvan Zürcher che segue di diversi anni l'opera d’esordio (The Strange Little Cat, 2014) della quale ripropone l’impianto visivo e narrativo. È infatti il secondo capitolo di una trilogia sulle relazioni umane e proprio la continuità stilistica conferma la consapevolezza e la precisa personalità dello sguardo dei registi svizzeri.

Nel corso del film – che racconta di un trasloco – lo spazio (fisico e narrativo) si struttura, si riempie e si agita mentre dei segni rossi, parallelamente, animano il disegno della pianta. Ma il trasloco è anche e soprattutto una scusa per indagare le nuove relazioni che si instaurano e le vecchie che sono costrette ad assorbire i contraccolpi del cambiamento anche se, proprio di quelle relazioni che sono il perno del racconto, non ci viene detto quasi nulla. Dei personaggi che affollano le compostissime inquadrature, entrandone e uscendone con una quotidiana naturalezza quasi sconvolgente, non si sa molto infatti: si intuiscono i rapporti, le implicazioni, si vedono effusioni e rigidità, si percepiscono complicità e sopratutto si avvertono tensioni. Tensioni che – come già nel primo film –restano sospese nel mistero. Non si svelano perché, semplicmente, non ce n’è bisogno: è il loro esserci che interessa ai registi, non raccontarne la genesi o la soluzione quanto piuttosto registrare il loro stare nello spazio insieme ai corpi, delle altre persone e degli animali, insieme agli oggetti, insieme ai rumori.

È cosi che si riempie quella pianta vuota. Un pennarello rosso aggiunge i particolari, le piccole cose, gli oggetti, i cani, i gatti, i segni che trasformano quello spazio algebrizzato in uno spazio animato. È una casa in divenire, tra un divano giallo che arriva, una plancia di legno piallata alla bisogna, un cutter che adatta, un armadio che si riempie, un vicino con cui si interagisce dal balcone, un vecchio amico che dà una mano, una madre ingombrante, un traslocatore ammiccante. È uno spazio in costruzione, non ancora stabilizzato, non ancora esperito. Anzi reso ancora più instabile da tutte quelle presenze che lo invadono. Non è più un progetto ma non è ancora una casa, è uno spazio relazionale pieno di personaggi che vanno e vengono, che si incrociano, si sfiorano ma soprattutto si guardano. Escono ed entrano, si guardano, si guardano, e ancora si guardano.

E poi guardano fuori (talvolta con un controcampo, talvolta no) parlano poco ma dicono tanto. Senza nemmeno raccontare. Sono gli oggetti e gli animali a restituire tutto; oggetti e animali in costante pericolo, osservatori inermi su cui incombe la minaccia di essere travolti dalla quotidiana incuranza o, peggio, dal  violento bisogno di esternare. Sono in pericolo ma restano lì e raccontano mentre la musica (intelligente come non mai) fa da contrappunto ai silenzi, ai punti interrogativi, ai non detti, trasformando l’angoscia in poesia, il dramma in commedia. Per questo la macchina da presa stacca continuamente da uno dei tanti sguardi enigmatici, feroci, affranti, seducenti, tristi, persi e finisce su una tazza orlata di the, su un vetro rotto, su un coltello rimasto li, su un gatto che salta sul tavolo, su un liquido rosso che piano piano cola dal tavolo, imbibisce la pianta, la invade, la cancella o forse solo la riempie definitivamente, come succede ogni giorno, come succede nelle nostre case, mentre un ragno cammina sul soffitto.