Concorso

Wheel of Fortune and Fantasy di Ryûsuke Hamaguchi

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Ci eravamo permessi di essere crudeli con Ryûsuke Hamaguchi, quando nel 2019 il suo precedente  lungometraggio, Asako I e II una storia d’amore e Doppelgänger dallo spirito davvero un po’ troppo manga, fu presentato nella competizione principale di Cannes. Era una crudeltà dettata molto verosimilmente dal contrasto tra quell’approccio leggero, che fuori dalla cultura nipponica e nippofila suona come eccessivamente monodimensionale, se non frivolo, e la complessità, se non la “serietà” della sua prova precedente, il fluviale Happy Hour, più di cinque ore, che nel 2015 a Locarno lo aveva rivelato alle platee cinefile occidentali: una storia di amicizie al femminile di grande sottigliezza psicologica, che si nutriva proprio di quella durata, e di un lavoro di squadra con le quattro attrici protagoniste, che erano infatti state premiate proprio dalla giuria locarnese.

Ecco, con la visione di Wheel of Fortune and Fantasy sembra però chiarirsi un disegno più preciso. Questa volta un film antologico, un omnibus, in tre episodi: I. Magic (or Something Less Assuring), II. Doors Wide OpenIII. Once Again. Il disegno, dicevamo, che  sembrerebbe profilarsi sembra proprio quello di una ricerca sulle forme e sui formati della narrazione, e forse, in questa luce, ora apprezzeremo la leggerezza di Asako. In fondo Hamaguchi è stato docente di cinema all’ENBU Seminar di Tokyo, e in qualche modo Wheel of Fortune sembra ambire a una dimensione esemplare, sembra voler essere la dimostrazione, per via pratica, più che teorica, che il formato breve può risultare uno strumento profondo nella lettura delle vicende e delle relazioni umane. Che poi, in ogni caso, si tratta di un formato breve sui generis: è difficile pensare ai tre segmenti come a tre mediometraggi indipendenti, antologizzati per pure ragioni distributive, né il legame che li tiene insieme è pretestuoso, di ordine produttivo, come lo era nell’età dell’oro di queste miscellanee, all’epoca di RoGoPaG, de Le Streghe o di Tre passi nel delirio. Soprattutto, in quei casi i registi erano spesso soprannumerari rispetto alla qualità del risultato… qui ce n’è uno solo, con delle buone idee. E allora, se vogliamo proprio cercare un modello, sarà piuttosto a quello nobilissimo di Ophüls che dovremo pensare, a film come La ronde o Le plaisir. Se non altro perché un indizio in tal direzione ce lo fornisce la distribuzione internazionale, che aggiunge una Wheel, una ruota, una ronde, al titolo originale che significa  semplicemente “immaginazione (o fantasia) e caso (o fortuna)”. Una ruota che gira sulla cadenza di Von fremden Ländern und Menschen (Di paesi e genti straniere), dalle Kinderszenen di Robert Schumann, didascalia perfetta per una giostra dell'immaginazione creativa, ma anche un segno in più dell'ammirazione per la cultura europea, evidente in tutto il film.

Forse però ci orienteremmo più su Le plaisir, anche solo per l’origine letteraria di quel film:  in fondo, se pure la risoluzione per verba, dialogica, chiacchierata, delle singole vicende messe in scena da Hamaguchi può far pensare a Rohmer, è difficile non pensare, anche (ma non soltanto) per il sottile innuendo erotico che colora gli episodi, soprattutto quello centrale, incentrato guarda caso intorno a una cattedra universitaria di Francese, a un ripensamento dell’asciuttezza narrativa di Maupassant (dove il caso e le ellissi vertiginose spesso hanno un ruolo fondamentale), anche se non necessariamente, non esattamente, lo stesso Maupassant a cui faceva riferimento Ophüls.

Ma, lascia intendere Hamaguchi, cosa sono l’immaginazione e il caso se non il fiammifero e la fiamma nel perfetto motore narrativo? Non esplicita, ovviamente, l’interrogativo, ma struttura nei tre segmenti un paradigma tripartito, tre situazioni in cui il caso e la fantasia generano storie di sorprendente profondità, secondo un’architettura dove entrano in gioco, ovviamente, anche altri elementi: per esempio, le tre protagoniste corrispondono anche a tre momenti diversi della vita. La ragazza che casualmente riconosce, nelle parole dell’amica, la descrizione dell’ex, di cui forse è ancora lei stessa innamorata, e torna sui propri passi immaginandosi di poter aggiustare il presente (ma soprattutto, figurandosi una scena madre in una sala da the, poco prima di rassegnarsi); la giovane donna sposata che casualmente, per errore, credendo di essersi ravveduta, manda a compimento il piano immaginato dallo studente con cui ha una relazione ai danni del severo professore di francese che gli ha stroncato la carriera; la donna matura che, rientrata dopo vent’anni nella cittadina dove è cresciuta, per una rimpatriata scolastica, sulle scale mobili della stazione da cui sta per ripartire (quale migliore ronde postmoderna si poteva immaginare?) casualmente riconosce e viene riconosciuta dalla donna che era stata l’amore della sua gioventù: o forse il caso ha fatto un doppio carpiato, e le cose non sono esattamente così, ma proprio grazie all’immaginazione entrambe potranno stringere, se non rammendare, lo strappo che si portano dentro. Che poi è anche una questione di immaginazione nel senso di messa in immagine, di stratificazione, di complessificazione dell’immagine (che magari può far pensare anche a Mizoguchi, oltre che a Ophüls).

Il caso e l’immaginazione, dicevamo, il fiammifero e la fiamma. Ma qual è la minerva, qual è l’attrito, qual è l’innesco? A ben guardare, in tutte e tre le storie il meccanismo narrativo si avvia per un atto volontario, per una scelta, per un moto di ritorno: fare inversione a U con il taxi; tornare sui propri passi nello schema del ricatto; scendere dalla scala mobile e tornare indietro, per rivedere, per verificare di persona quello che si è creduto di vedere. È solo con un atto di volontà che la fiamma si accende, sembra ricordarci Hamaguchi. È solo così, operando una scelta, che la Ruota entra davvero in moto.