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Ci vuole una buona dose di coraggio, e pure di ironia e umiltà, qualità, almeno le ultime due, che non credevamo di riconoscere a Bruno Dumont, per prendere il proprio cinema, i suoi luoghi, le sue facce, i suoi temi, e ribaltarli nella loro versione farsesca, addirittura demente.

Eppure nelle quattro puntate da 50 minuti della miniserie P'tit Quinquin, proiettate alla Quinzaine in una versione in cinemascope pensata per il cinema, Dumont fa esattamente questo: sabota se stesso, il suo film, la sua idea di rappresentazione, e lo fa in modo così comico, aperto e giocoso da spiazzare e conquistare.

C'è tutto quello che dovrebbe esserci, in P'tit Quinquin, per essere un vero film di Dumont: la Normandia, la vita di campagna, le facce sinistre, vagamente deformate dei contadini e dei loro figli, le spiagge desolate, la presenza di un male strisciante, una violenza efferata e inspiegabile. Solo è virato in chiave demenziale, inizialmente con un spirito distruttivo da lasciar a bocca aperta, col procedere dei minuti con toni più soffici e improvvise illuminazioni di comicità. 

Soprattutto il primo dei cinque episodi, quello che assesta il colpo scioccante, che impiega pochi minuti a svaccare senza temere pregiudizi o attese, è un susseguirsi di gag e buffonate in cui Dumont fa procedere a briglia sciolta il racconto e i suoi interpreti, lasciando nel montato scene palesemente improvvisate, procedendo con tempi comici prolungati, spiazzanti, del tutto stranianti. 

Anche perché il quadro è sempre quello di La vie de Jesus o Hors Satan, fisso, impassibile, attonito. Solo che il tono è diverso, come se fosse sfasato. Oltre lo sguardo truce e la bocca storta del piccolo Quinquin, leader di una banda di ragazzini in un paese di mare dove accadono strani omicidi su cui indagano due poliziotti che paiono usciti dalla Pantera rosa, non c'è il male nella sua dimensione spirituale o salvifica, ma un'affettuosità e un'umiltà di sguardo sincere e sorprendenti. 

Dumont non nega la presenza nel suo cinema di una pulsione mortifera e diabolica, continua a provocare lo spettatore mettendolo di fronte al disagio istintivo dell'handicap e della demenza, non ha certezze e semina la sua improbabile spy story di tanti interrogativi e nessuna risposta: questa volta, però, a salvarlo è per davvero una risata, una leggerezza mai intravista prima

E alla fine ci si affeziona proprio a tutto, in P'tit Quenquin, alle sue figure macchiettiste ma autentiche, ai suoi toni assurdi e dunque tragici, alla sua sgangherata narrazione, alla sua impudicizia greve, e pure allo spirito idiota e insospettabile di un regista che ha saputo rinnegare se stesso, e per questo ritrovarsi.