Ancora alle prese con un mito da ricondurre a un principio di realtà, con La mort de Louis XIV Albert Serra compie un'operazione uguale e contraria a quella dei suoi film precedenti.
Don Chisciotte, i Re Magi, Dracula, in un certo senso anche il suo Casanova, erano personaggi dell'immaginario letterario e sacro calati nella banalità dello spazio-tempo e immischiati nella complessità delle relazioni umane. Luigi XIV, invece, colto nelle sue ultime settimane di vita fra l'agosto e il settembre del 1715, con la gamba sinistra in cancrena, dolori insopportabili ovunque, attorniato dalla propria corte, dal medico personale, dal valletto, dai sacerdoti, dai ministri e dalle dame di compagnia, è all'opposto una figura storica ammantata di mitologia, che subisce però la medesima riduzione a uno stato naturale. Un corpo da demitizzare, come sempre, ma subito dopo da strappare alla sua realtà e da riportare a quella che accumuna ogni essere umano. Oltre una concezione ideale Storia, e oltre il potere taumaturgico del mito.
Il tramite è ovviamente il corpo del sovrano - il corpo mistico che va lentamente a marcire - e il mezzo la composizione pittorica dell'inquadratura. Serra usa il 16:9 Panavision come formato della messa a morte di Luigi XIV, raffigurato quasi sempre disteso nel suo grande letto, attorniato da coperte e drappeggi rossi, soffocato da una parrucca dalle dimensioni parossistiche, illuminato da candele disposte geometricamente, circondato da figure scure e pallide disposte su piani paralleli che accentuano la profondità di campo. In questa rappresentazione stratificata ma rispettosa della morte, la malattia del re viene racconta passo dopo passo, rituale dopo rituale, silenzio che si aggiunge ad altro silenzio, con una misura e una distanza che rimandano inevitabilmente all'immobilismo della pittura.
In La mort de Louis XIV, Serra procede in modo preciso e ripetitivo, come i due libri su cui ha lavorato, i Mémoires di Saint-Simon e del Marchese di Dangeau, senza però forzare la mano sull'evidente, per certi versi irresistibile, deriva grottesca della situazione. E se nei suoi film precedenti la continua dilatazione del tempo, l'attesa, la durata, anche la noia, aprivano al sublime, qui invece viene registrano il semplice avvicinamento alla fine, l'incidere lento della vita verso la morte.
Luigi XIV, anche lui, il monarca assoluto, invecchia e deperisce come tutti, e nonostante la sua stessa esistenza sia concepita come uno spettacolo, con i cortigiani che osservano e applaudono ogni suo gesto, scandendo l'immancabile sire prima di ogni loro azione, nella sua fine non c'è nulla di spettacolare. Serra la mette in scena come un dipinto, la toglie dal sacro e la riporta in universo pittorico, solamente per ribadirne l'umanità. Quello che muore di fronte agli occhi della storia è un uomo: un corpo che marcisce, certo, ma che merita il rispetto e il silenzio di ogni sguardo.
E se dopo la morte del sovrano tanto la mistica quanto la scienza si appropriano entrambe del corpo, la prima consegnando il cuore di Luigi XIV al collegio dei Gesuiti di rue Saint-Antoine, la secondando estraendo gli organi interni per cercare la causa della malattia, e se prima ancora nei dialoghi fra medici si assisteva allo scontro fra il nascente razionalismo illuminista e i retaggi di una mistica ancora medievale, ciò che alla fine sembra importare veramente a Serra, con il suo cinema immobile come il tempo e la contemplazione, è soprattutto il dubbio.
Il dubbio degli altri uomini di fronte alla scomparsa del singolo, non importa se re o suddito, e immediatamente dopo lo stupore, a ogni morte, di fronte a un evento inevitabile, scontato, naturale, eppure impossibile da non considerare unico.